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I TERRORISTI CHE NESSUNO VUOLE VEDERE

Fabio Nicolucci

Le dimensioni del massacro in due moschee in Nuova Zelanda sono tali da porre in modo ultimativo una semplice domanda: “chi è il nemico”? Sinora si è data una risposta confusa. Perché in occidente non vi è accordo e unità sull’analisi del fenomeno. Di conseguenza, non vi è unità d’azione.

Non vi è unitarietà di analisi perché nel nostro spazio pubblico si confrontano due letture assai diverse del fenomeno “Terrorismo”. Che discendono da due oramai opposte  “Weltanschauung” – visione del mondo, ndr. – su come leggere la crisi dell’occidente nella quale siamo immersi. Più che destra e sinistra, infatti, nella cultura politica occidentale si scontrano due modi di guardare la realtà.

Il primo è intriso di ideologia, dove il “dover essere” è fumoso ma proietta sullo schermo le proprie paure e frustrazioni, e trova nell’Altro la cifra del problema. Qui la realtà è lineare, spesso monodimensionale, incontrovertibile fino all’antiscientismo e poi all’irrazionalismo, prodotto da uno scioglimento della dimensione storica in quella ideologica.

In questa modalità, fatta propria dal razzismo e dal suprematismo bianco e da tutti coloro che vedono le civiltà come monoliti monodimensionali, dopo il Comunismo ora il nemico è l’Islam. In quanto tale. Essa cresce nel brodo di coltura dell’islamofobia – un razzismo declinato in salsa religiosa e non etnica – fino a far scrivere in un comunicato ufficiale al senatore australiano del Queensland Fraser Anning ieri “la vera causa del massacro nelle strade della Nuova Zelanda oggi è il programma di immigrazione che ha permesso a mussulmani fanatici in primo luogo di emigrare in Nuova Zelanda. Siamo chiari, anche se mussulmani possono essere state oggi le vittime, di solito essi sono i perpetratori. L’intera religione dell’Islam è semplicemente la violenta ideologia di un despota del sesto secolo mascherato da leader […] e la verità è che l’Islam non è come le altre fedi.”

Il secondo modo segue invece il realismo. Lo studio di quella “realtà effettuale” che Machiavelli indicava come vero obiettivo dell’analisi per non finire ad acchiappare nuvole. Qui la realtà è complessa, spesso intricata, sicuramente non lineare e certo non meccanicistica. Ed è  un fenomeno dove conta molto la dimensione della Storia, e quindi le fake news non hanno legittimità perché la contraddicono.

Se si guarda dunque con realismo politico la realtà del terrorismo, si capisce che il fenomeno non è uno e indistinto, bensì vi sono due terrorismi distinti. Il primo è un progetto politico globale del jihadismo – entro il cui universo di senso possiamo anche inscrivere i fenomeni di radicalizzazione in occidente – che opera per acquisire meriti contro “il nemico lontano” per vincere la battaglia per il potere all’interno della propria civiltà islamica. La lotta colpisce anche noi, ma l’obiettivo primo è sconfiggere i riformisti all’interno dell’Islam.

Il secondo è un terrorismo di estrema destra, razzista e suprematista. Che gli islamofobi non vedono, e che l’ascesa e la centralità dei jihadisti ha fatto sottovalutare anche agli apparati di intelligence. Che dimostra la falsità dell’assunto “non tutti i mussulmani sono terroristi, ma tutti i terroristi sono mussulmani”. Non era infatti mussulmano bensì ebreo quel Baruch Goldstein che esattamente 25 anni fa all’alba del 25 febbraio 1994 trucidò 39 fedeli in preghiera nella moschea dei patriarchi di Hebron per far deragliare il neonato processo di pace con i palestinesi di Oslo. Non era mussulmano bensì suprematista bianco e islamofobo quel Anders Beivik che il 22 luglio del 2011 uccise 77 persone a Oslo e nell’isolotto norvegese di Utoya. Non è mussulmano Luca Traini, il cui nome sporca il nostro orgoglio nazionale – e la nostra coscienza – fino ad essere citato come esempio dal terrorista che ieri ha ucciso 49 persone. Non era mussulmano bensì suprematista bianco quel Robert Bowers che il 27 ottobre scorso ha massacrato 11 fedeli ebrei in una sinagoga di Pittsburgh, negli Usa (v.foto).

I due terrorismi sono diversi, perché quello jihadista si avvale anche di una struttura organizzata mentre quello di estrema destra non ha strutture formali. Ma ambedue si nutrono di universi di senso che li sostengono, diversi ma ben precisi. Con ideologi, pubblicazioni, e una convergenza nell’uso dei social media e della propaganda, che i neonazisti sempre più mutuano da quella del jihadismo. Fino alla tattica di “alzare il volume” con dirette in streaming.

Mentre dunque il jihadismo rimane la nostra preoccupazione principale, la sottovalutazione prodotta dall’analisi di chi vede solo questa – più che reale – minaccia produce una sottovalutazione della seconda. Ed è bizzarro, anche perché mentre l’estrema destra è seconda al jihadismo per quantità di massacri collettivi, è assolutamente prima e di successo negli assassini politici, come insegna quello di Ytzhak Rabin. Eppure il Global Terrorism Index segnala una sua forte crescita, visto che siamo passati dai 20 attacchi nei 13 anni tra il 2001 e il 2014, ai 61 dei tre anni seguenti. Con l’uccisione di una deputata inglese, Jo Cox, e per esempio la diffusione di una rete internazionale di militanti che dal gruppo neonazista e antimussulmano inglese National Action si estende a Germania, Scandinavia, paesi anglosassoni – tra cui Australia e Nuova Zelanda – e paesi baltici. Almeno per il momento.

Perché se non risolveremo la nostra interna dissonanza cognitiva – che è poi un dissenso e disaccordo interno su “chi è il nemico” – , il massacro di ieri può aprire una terribile e nuova convulsione nelle nostre società e nei rapporti con l’Altro, a cominciare dal nostro Islam in occidente. Proprio come 25 anni fa il massacro di Baruch Goldstein terremotò e iniziò a far fallire il processo di pace tra israeliani e  palestinesi.

Fabio Nicolucci

(articolo pubblicato su Il Mattino di sabato 16 marzo 2019)

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Setirot – Cose da prof

Stefano Jesurum Pubblicato in Idee il ‍‍14/02/2019 – 9 אדר א’ 5779

Enrico Galiano è un professore di quelli che, malgrado la considerazione sempre più bassa e gli stipendi vergognosi con cui questo paese ricambia le fatiche e l’impegno di chi forma il nostro futuro, crede nel proprio lavoro (in una scuola alla periferia di Pordenone). E s’inventa un po’ di tutto: dai libri pubblicati con Garzanti alla webserie Cose da prof che supera i dieci milioni di visualizzazioni Facebook. Se lo cito qui è perché mi ha colpito molto una sua frase pronunciata in occasione dell’ultima Giornata della Memoria. Semplice, chiara, vera: “Per pensare che il passato si stia ripetendo identico bisogna essere un po’ miopi. Ma per non vedere pezzi di quel passato nel nostro presente, bisogna essere proprio ciechi”.
Tanto per mettere un punto al dilagare di inutili, dannose, capziose, “ideologiche” polemiche su a-storici parallelismi tout court tra “ieri” e “oggi”, parallelismi pronunciati, spessissimo attribuiti in malafede a persone integerrime, magari sopravvissute al Lager. Aria fritta foriera di nuovo odio.

Stefano Jesurum, giornalista

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L’innominabile Finkielkraut, aggredito perché ebreo, diventa “un signore anziano”

Stefano Jesurum 27 febbraio 2019

Tutto inizia il 15 maggio 2018 su Rai3, una puntata di “Quante storie”, il bel programma di Corrado Augias che attraverso i libri parla di attualità, politica e cultura. Il cuore della trasmissione è “Autobiografia del Novecento. Storia di una donna che ha attraversato la Storia” (il Saggiatore). L’autrice è Vera Pegna. Per me che sono ignorante una sconosciuta. Effettivamente una lacuna poiché Pegna ha alle spalle un’esistenza abbastanza speciale. Nata ad Alessandria d’Egitto in una famiglia – ci tiene spesso a specificarlo lei stessa – “di origine ebraica” (mai capito che cosa questa definizione, per altro usatissima, significhi), si laurea a Ginevra, milita nel Pci, consigliere comunale a Caccamo, successivamente Comitato Vietnam a Milano. Apprezzata interprete, gira per conferenze in mezzo mondo, Europa, Asia e Africa. Incontra il buddismo, poi il lungo viaggio verso Palermo per conoscere Danilo Dolci, il Gandhi siciliano. E il Pci, appunto, la lotta contro la mafia, l’approdo a Milano, l’impegno contro la guerra in Vietnam, la difesa della causa palestinese sotto il vessillo del laicismo. Quindi Roma, Jean-Paul Sartre, Simone de Beauvoir, Karol Wojtyla, moltissimi i personaggi di spicco che incontra. E racconta. Da laica (dice lei).

​Già da Augias però il suo “laicismo”, alle mie orecchie, suona qualche nota stonata, tipo l’ossessione che sovente si riscontra in quel campo radicale “difensore” della causa palestinese attraverso la criminalizzazione tout court di Israele – del suo popolo, della sua democrazia, della sua storia, della sua stessa esistenza. Insomma, per intenderci, ciò che ormai viene ufficialmente chiamato con il nome che merita: una forma di antisemitismo secondo la definizione coniata dall’International Holocaust Remembrance Alliance (Ihra) e adottata all’unanimità, tra gli altri, dai 28 paesi dell’Unione Europea. Fin qui – come dire? – niente di nuovo sotto il sole per chi, orgogliosamente ebreo e orgogliosamente di sinistra (chi scrive e molti altri), milita da decenni nel  campo della pace, per intenderci alla Amos Oz.

​Ma è il 18 febbraio di quest’anno che Vera Pegna, a mio avviso, fa un passo in più verso l’obnubilamento (cit. dizionari Corriere.it: Temporaneo ottundimento delle facoltà sensoriali o intellettive). In collegamento con la giornalista Sara Menafra che quel giorno conduce “Prima Pagina” di Rai Radio3 e si occupa dell’aggressione subita 24 ore prima a Parigi da Alain Finkielkraut per mano di un gruppo di Gilet gialli che lo assalgono al grido di «sporco ebreo, sporco sionista, viva la Palestina», Pegna non chiama mai il noto filosofo per nome – cosa che non farà per l’intero collegamento. «Quelle frasi rivolte a un signore anziano… è una cosa che non va bene comunque». E Finkielkraut, va rimarcato, rimane per i quasi sei minuti di sproloquio «un anziano signore». Tutto ciò non è antisemitismo. «Perché oggi il sionismo non è una cosa bella, è una cosa brutta, e si può dire sporco sionista». Ma il secondo passaggio “logico” – aberrante – è che «poiché Israele si vuole Stato ebraico, lo Stato di tutti gli ebrei del mondo, sporco sionismo si può dire, sarebbe come dire sporco Israele». Affermazione, per la signora Pegna, più che legittima evidentemente.

​Vabbè, dai!, su Israele se ne sentono tante, sai che novità. Onestamente una “novità” Vera Pegna ce la regala. Quando dice, o meglio chiede, qualcosa che definire vergognoso è poco. «Ciò che vorremmo noi europei è che vorremmo sentire chi si considera ebreo, sempre legittimamente, protestare, condannare Israele per le sue atrocità. Vorremmo sentire gli ebrei fuori da Israele dire “Israele è Israele, è il paese dei suoi cittadini, ma non è il nostro paese”, invece questo purtroppo non viene detto». Una versione 2019 dell’eterno “Davide discolpati!”. Chiedo scusa se sarò lungo: una esegesi di quell’intervento può spiegare ben più di mille saggi su pregiudizio, razzismo, antisemitismo diffusi. E con i tempi che corrono sono profondissimamente convinto che l’ammonimento contenuto nel bellissimo “Il bambino nella neve” di Wlodek Goldkorn (Feltrinelli) sia vitale, dirimente, imprescindibile: un tempo si portavano nelle miniere i canarini, sensibili ai gas avvertivano quando la catastrofe era imminente; memoria significa essere un canarino in miniera, dare l’allarme quando si sente l’acre odore del razzismo. Perché le parole di Vera Pegna interrogano chi si impegna affinché quell’acre odore di razzismo non infesti definitivamente la nostra quotidianità gialloverde.

​Per spiegarmi senza troppi giri di parole, io, per esempio, non mi considero ebreo, io sono ebreo. E così tutti gli ebrei al mondo sono ebrei, non si considerano tali: religiosi e atei, osservanti e laici, di destra e di sinistra, plaudenti o combattenti il governo Netanyahu. Pegna dice «noi europei vorremmo che…». Già, evidentemente il francese Finkielkraut non è europeo, così come non lo è l’italiano Stefano Jesurum. Il pensiero va così ai Treves e ai Sereni, ai fratelli Rosselli e a Primo Levi, a Bassani, ai moltissimi che hanno fatto la nostra cultura, la nostra società, il Risorgimento e la Guerra di Liberazione – da ebrei e da italiani. E non posso non (quasi) commuovermi andando con la memoria al 1988 o giù di lì quando per “l’Europeo” intervistai l’allora ministro degli Esteri del Pci, Giorgio Napolitano, che per la prima volta sentenziò «sionismo non è una parolaccia e sionista non è un insulto». Oggi invece Pegna ci chiede non tanto e non solamente una condanna di Israele in toto (non del governo, bensì dello Stato in sé) quanto una sorta di dissociazione identitaria. Chissà se la signora ricorda l’accusa di dual loyalty, doppia fedeltà cioè infedeltà appioppata agli ebrei durante il fascismo e/o negli anni più cupi dell’URSS – con le ben note conseguenze, lager e gulag. Insiste: «La parola antisemitismo, una parola terribile se legata al passato con tutti quei morti, oggi si è evoluta perché gli ebrei fuori da Israele non condannano Israele». Se la logica ha un senso dunque, se critichi la politica di Gerusalemme non puoi che essere antisionista e quindi non puoi che essere, “giustamente”, antisemita.

​Post scriptum. Nell’intero collegamento la conduttrice Sara Menafra (“Messaggero”, “Manifesto”, “Secolo XIX”, “Sole 24 Ore”, attualmente coordinatrice della redazione romana di “Open”), pure lei, non ha mai nominato Alain Finkielkraut. Praticamente non ha aperto bocca, complimenti.

Stefano Jesurum

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Setirot – Speranza

Stefano Jesurum Pubblicato in Idee il ‍‍07/03/2019 – 30 אדר

Sicurezza vuol dire periferie dove un ragazzo di 19 anni non abbia paura di essere colpito da un proiettile di pistola che gli segna la vita. Sicurezza significa dare il diritto a due ragazzi che si vogliono baciare perché si vogliono bene di non avere paura che qualcuno li insulti sull’autobus. Sicurezza vuol dire permettere a un ragazzo che vuole pregare Allah di poterlo fare senza sentirsi deriso. Sicurezza vuol dire per tanti ragazzi prendere l’autobus e andare a scuola con la kippà in testa e sentirsi felici e non vittime di insulti o di paure.
È uno dei passaggi che più mi sono piaciuti del discorso pronunciato da Nicola Zingaretti la sera in cui le primarie lo hanno eletto nuovo segretario del Partito democratico. Parole che – si sia piddini come me o no – dovrebbero essere condivise e auspicate da ogni cittadino in buona fede, se non razzista e fascista. Purtroppo temo che ci sarà chi inizierà – o forse lo ha già fatto – con i distinguo capziosi, con le lagne vittimistiche, con una sorta di sorda volontà di non cogliere mai il positivo bensì di incistarsi perennemente sul negativo. Debbo essere più chiaro? Prendiamo a esempio la grande manifestazione antirazzista di Milano. È stata semplicemente splendida, ha ridato speranza a un popolo che rischiava di rinchiudersi nella propria frustrante malinconia. Ha suonato la tromba del nuovo impegno per un futuro migliore del cupo e incattivito presente. Certo, in mezzo a 200mila donne e uomini, bambini, famiglie, anziani, ha sventolato qualche bandiera palestinese che non c’entrava veramente alcunché. Le ho viste solamente in fotografia, però giurerei che a portarle siano state quelle poche decine di persone che da anni hanno fatto dei diritti palestinesi la maschera del loro antisemitismo.
E allora dai! andiamo avanti. A forza di guardare il dito finiremo sennò col perderci lo spettacolo della luna. Noi che della speranza abbiamo fatto nei secoli la nostra forza – oltre che l’inno di Israele.

Stefano Jesurum, giornalista

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Setirot – Limiti

Stefano Jesurum Pubblicato in Idee il 14/03/2019 – 7 אדר ב’ 5779

Ma che cosa ci sta succedendo? C’è un limite? E qual è? Dove si fermerà l’asticella del consentito? In Eretz sono in piena campagna elettorale, ok, ok. I toni ovviamente si alzano, ok. Adesso però il Presidente Reuven Rivlin afferma che si rifiuta «di credere ci siano partiti politici che hanno abdicato al carattere di Israele come Stato ebraico e democratico, democratico ed ebraico»; ribadisce che «Israele riconosce la totale uguaglianza di diritti per tutti i suoi cittadini». Perché lo fa? Perché all’Università ebraica di Gerusalemme rilancia il monito che lo ha sempre contraddistinto, ovvero «non ci sono, e non ci saranno mai, cittadini di prima classe, come non ci sono elettori di seconda classe. Siamo tutti uguali nella cabina elettorale, ebrei e arabi, cittadini dello Stato di Israele»? La risposta non è un segreto. Si riferisce all’ultima sparata del premier Benjamin Netanyahu rivolta a chi la pensa diversamente da lui e dalla sua coalizione di estrema destra. Ha detto Bibi: «Vorrei chiarire un punto che, a quanto pare, non è chiaro a persone leggermente confuse. Israele è uno Stato ebraico e democratico. Questo significa che si tratta dello Stato nazionale del solo popolo ebraico. Naturalmente rispetta i diritti individuali di tutti i cittadini – ebrei e non ebrei. Ma è lo Stato nazionale, non di tutti i suoi cittadini, ma solo del popolo ebraico». Alla faccia della Dichiarazione d’Indipendenza. Sì, lo so, la nuova, contestatissima, legge. Però c’è un limite. Anche perché aggiungi e aggiungi nefandezze e aberrazioni e prima o poi si scoppia. Un esempio? Le nuove prove sul fatto che la Rabbanut israeliana chiede il test del DNA agli ebrei “sospetti” (perché provenienti dall’ex URSS – come se invece in millenni di storia non ci siano state, certamente e ovunque, “contaminazioni”). Siamo alla limpieza de sangre. Dove è il limite?

Stefano Jesurum, giornalista

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Lo storico e il giornalista, la battaglia per l’anima di Israele

20 Febbraio 2019

Benny Morris e Gideon Levy hanno idee opposte su palestinesi, pace e sicurezza: sono lo specchio perfetto del Paese spaccato che si prepara a votare il 9 aprile

di BERNARDO VALLI

GERUSALEMME – Molte famiglie, in Israele, hanno alle spalle un romanzo. Una vita avventurosa. Spesso tragica. Risali un paio di generazioni, o anche meno, nell’esistenza di amici o conoscenti e li scopri fratelli, figli, nipoti di vittime dello sterminio. Sono ormai rari gli scampati dai campi della morte. Ci sono anziani sradicati dai Paesi d’origine e giovani che non conoscono le terre da cui sono arrivati genitori o nonni. I temperamenti sono passionali. L’ansia dell’insicurezza è l’inconscia origine di posizioni difensive, ma anche di reazioni offensive.

Ed ecco il sabra, l’israeliano nato in Israele, soldato sicuro di sé, al quale Natalia Ginzburg preferiva il curvo abitante del ghetto, scandalizzando i suoi lettori di Tel Aviv. La letteratura e la storiografia israeliane percorrono questi sentimenti in opere tra le più avvincenti del nostro tempo, scritte in ebraico, una lingua antica rinnovata. Convinzioni, altrettanto antiche, animano una società tra le più tecnologicamente avanzate. Le contraddizioni non mancano: una democrazia dinamica, spigliata, la sola della regione, occupa militarmente terre in cui gli abitanti non hanno i diritti dei cittadini di Israele.

Questo è un filtro attraverso il quale seguire questo Paese unico al mondo, sicuro di sé, ma sensibile per le tante cicatrici. Una società che sa guardarsi senza infingimenti, con un dibattito politico animato, a volte spregiudicato, verbalmente violento, come sembra esigere lo stato di emergenza, psicologico, ma anche reale, in cui vive. A neppure due mesi da un’elezione (9 aprile) in larga parte dominata dall’inamovibile problema della sicurezza, uno storico, Benny Morris, e un editorialista del quotidiano Haaretz, Gideon Levy, animano una polemica su un problema essenziale: arabi e israeliani possono convivere e per quanto tempo Israele potrà esistere? E’ un interrogativo che può sollecitare il dubbio tra non pochi elettori.

Benny Morris è uno dei “nuovi storici” che non si sono rassegnati alla interpretazione ufficiale del passato, e l’hanno scavato in piena libertà, non risparmiandosi reciproche critiche. Lui, Morris, è stato uno dei bersagli preferiti dai colleghi. Ha avuto atteggiamenti giudicati progressisti quando ha rifiutato di fare il servizio militare nei Territori occupati per motivi morali e per questo è finito in prigione. Ma ha anche preso posizioni opposte quando ha sostenuto che lo Stato di Israele, appena creato, avrebbe dovuto favorire, sollecitare l’esodo totale dei palestinesi. I suoi scritti restano comunque indispensabili per ricostruire quel periodo. Oggi, a settant’anni, professore universitario, Benny Morris pensa (e dice) che col tempo una maggioranza araba sommergerà Israele. Prevede ripetute esplosioni di violenza, tra le popolazioni di diversa origine, grazie alle quali gli arabi saranno nelle condizioni di chiedere il ritorno dei profughi. Così gli ebrei saranno ridotti a una minoranza, come erano quando vivevano nei Paesi musulmani. Chi ne avrà i mezzi raggiungerà l’America o qualche Paese occidentale. Per Benny Morris i palestinesi vedono tutto in una prospettiva di lungo termine. Al momento osservano “cinque-sei-sette milioni di ebrei”, circondati da centinaia di milioni di arabi. “…che tra trenta o cinquant’anni ci sommergeranno”, conclude lo storico.

Gideon Levy, 65 anni, è una delle più efficaci voci critiche israeliane. E’ uno dei protagonisti della permanente polemica politica che rende vitale la democrazia. E’ vero, dice, che fin dall’inizio i palestinesi si sono opposti al sionismo, considerandolo un potere coloniale che ha invaso e occupato il loro Paese. Nella loro prospettiva è la verità. La loro verità. A loro non interessa il diritto alla terra della Bibbia, né la promessa divina, né l’Olocausto. Questo riguarda il passato, dice sempre Gideon Levy; in quanto al presente, Morris trascura il regime militare nei Territori occupati, uno dei più severi e umilianti. Da più di cinquant’anni le ispezioni notturne gettano fuori dai loro letti anche i bambini. In quale altro Paese democratico ci sono milioni di persone senza cittadinanza? Morris prevede negli anni il prevalere della maggioranza musulmana ed è convinto che quel che è già accaduto nel passato altrove si verificherà in Israele nel futuro.

Sbaglia. Come storico, gli ricorda Levy, dovrebbe sapere che, più che ripetersi, la storia può essere, al massimo, simile. E’ vero che la democrazia ha scarse speranze di realizzarsi nei Paesi arabi, ma i palestinesi hanno dimostrato di sapersi comportare diversamente. Eleggono il loro Consiglio legislativo, e i palestinesi che sono cittadini israeliani eleggono i loro deputati alla Knesset. Morris è convinto che gli arabi non perdoneranno mai Israele. Levy ribatte che gli ebrei hanno perdonato la Germania per crimini più orribili; i neri negli Stati Uniti e nell’Africa del Sud hanno perdonato i bianchi; Francia e Germania sono diventati alleati dopo la Seconda guerra mondiale. Soltanto i palestinesi non dovrebbero perdonare?

Uno storico come Morris dovrebbe sapere che tutto può svolgersi in maniera diversa se Israele assume le sue responsabilità morali e concrete. Esistono già città arabo-israeliane come Haifa e Jaffa. Ed esistono tanti modi per tentare una convivenza. Ma quando si è ultranazionalisti non si trova nulla da discutere con quelli considerati inferiori. E allora si è portati a credere all’apocalisse, conclude Gideon Levy.

Quelle di Morris e di Levy sono posizioni opposte ed estreme. Il panorama politico mediorientale è cambiato. Israele non è più isolato. Con i Paesi sunniti, dall’Arabia Saudita all’Egitto, ha un comune nemico: l’Iran sciita degli ayatollah. Benjamin Netanyahu partecipa a riunioni con dirigenti arabi che un tempo chiedevano la fine di Israele.

Ma i rapporti al vertice, tra governi, non corrispondono ai sentimenti prevalenti nelle popolazioni. Non contribuiscono alla convivenza né il muro eretto tra Israele e i Territori occupati; né la legge sullo stato-nazione ebraica, approvata in luglio dalla Knesset, che di fatto fa degli arabo-israeliani cittadini di una classe inferiore, nonostante la dichiarazione di indipendenza parli di uguaglianza per tutti i cittadini, senza distinzione etnica o religiosa; né la riduzione della lingua araba, un tempo ufficialmente la seconda, a lingua a status speciale. Né del resto gli incontri tra dirigenti arabi e israeliani, per concertare azioni contro il comune nemico iraniano, hanno cambiato gli umori ostili delle popolazioni arabe.

Benny Gantz, l’avversario di Benjamin Netanyahu alle elezioni di primavera, pur auspicando un dialogo con gli arabi, parla di un’ostilità destinata a durare a lungo. Netanyahu non la pensa diversamente. E agisce di conseguenza.

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