Lo storico e il giornalista, la battaglia per l’anima di Israele
20 Febbraio 2019
Benny Morris e Gideon Levy hanno idee opposte su palestinesi, pace e sicurezza: sono lo specchio perfetto del Paese spaccato che si prepara a votare il 9 aprile
di BERNARDO VALLI
GERUSALEMME
– Molte famiglie, in Israele, hanno alle spalle un romanzo. Una vita avventurosa.
Spesso tragica. Risali un paio di generazioni, o anche meno, nell’esistenza di
amici o conoscenti e li scopri fratelli, figli, nipoti di vittime dello
sterminio. Sono ormai rari gli scampati dai campi della morte. Ci sono anziani
sradicati dai Paesi d’origine e giovani che non conoscono le terre da cui sono
arrivati genitori o nonni. I temperamenti sono passionali. L’ansia
dell’insicurezza è l’inconscia origine di posizioni difensive, ma anche di
reazioni offensive.
Ed ecco il sabra, l’israeliano nato in Israele,
soldato sicuro di sé, al quale Natalia Ginzburg preferiva il curvo abitante del
ghetto, scandalizzando i suoi lettori di Tel Aviv. La letteratura e la
storiografia israeliane percorrono questi sentimenti in opere tra le più
avvincenti del nostro tempo, scritte in ebraico, una lingua antica rinnovata.
Convinzioni, altrettanto antiche, animano una società tra le più
tecnologicamente avanzate. Le contraddizioni non mancano: una democrazia
dinamica, spigliata, la sola della regione, occupa militarmente terre in cui
gli abitanti non hanno i diritti dei cittadini di Israele.
Questo è un filtro
attraverso il quale seguire questo Paese unico al mondo, sicuro di sé, ma
sensibile per le tante cicatrici. Una società che sa guardarsi senza infingimenti,
con un dibattito politico animato, a volte spregiudicato, verbalmente violento,
come sembra esigere lo stato di emergenza, psicologico, ma anche reale, in cui
vive. A neppure due mesi da un’elezione (9 aprile) in larga parte dominata
dall’inamovibile problema della sicurezza, uno storico, Benny Morris, e un
editorialista del quotidiano Haaretz, Gideon Levy, animano una polemica su un problema
essenziale: arabi e israeliani possono convivere e per quanto tempo Israele
potrà esistere? E’ un interrogativo che può sollecitare il dubbio tra non pochi
elettori.
Benny Morris
è uno dei “nuovi storici” che non si sono rassegnati alla interpretazione
ufficiale del passato, e l’hanno scavato in piena libertà, non risparmiandosi
reciproche critiche. Lui, Morris, è stato uno dei bersagli preferiti dai
colleghi. Ha avuto atteggiamenti giudicati progressisti quando ha rifiutato di
fare il servizio militare nei Territori occupati per motivi morali e per questo
è finito in prigione. Ma ha anche preso posizioni opposte quando ha sostenuto
che lo Stato di Israele, appena creato, avrebbe dovuto favorire, sollecitare
l’esodo totale dei palestinesi. I suoi scritti restano comunque indispensabili
per ricostruire quel periodo. Oggi, a settant’anni, professore universitario, Benny
Morris pensa (e dice) che col tempo una maggioranza araba sommergerà Israele.
Prevede ripetute esplosioni di violenza, tra le popolazioni di diversa origine,
grazie alle quali gli arabi saranno nelle condizioni di chiedere il ritorno dei
profughi. Così gli ebrei saranno ridotti a una minoranza, come erano quando
vivevano nei Paesi musulmani. Chi ne avrà i mezzi raggiungerà l’America o
qualche Paese occidentale. Per Benny Morris i palestinesi vedono tutto in una
prospettiva di lungo termine. Al momento osservano “cinque-sei-sette milioni di
ebrei”, circondati da centinaia di milioni di arabi. “…che tra trenta o
cinquant’anni ci sommergeranno”, conclude lo storico.
Gideon Levy, 65 anni, è
una delle più efficaci voci critiche israeliane. E’ uno dei protagonisti della
permanente polemica politica che rende vitale la democrazia. E’ vero, dice, che
fin dall’inizio i palestinesi si sono opposti al sionismo, considerandolo un
potere coloniale che ha invaso e occupato il loro Paese. Nella loro prospettiva
è la verità. La loro verità. A loro non interessa il diritto alla terra della
Bibbia, né la promessa divina, né l’Olocausto. Questo riguarda il passato, dice
sempre Gideon Levy; in quanto al presente, Morris trascura il regime militare
nei Territori occupati, uno dei più severi e umilianti. Da più di cinquant’anni
le ispezioni notturne gettano fuori dai loro letti anche i bambini. In quale
altro Paese democratico ci sono milioni di persone senza cittadinanza? Morris
prevede negli anni il prevalere della maggioranza musulmana ed è convinto che
quel che è già accaduto nel passato altrove si verificherà in Israele nel
futuro.
Sbaglia. Come storico,
gli ricorda Levy, dovrebbe sapere che, più che ripetersi, la storia può essere,
al massimo, simile. E’ vero che la democrazia ha scarse speranze di realizzarsi
nei Paesi arabi, ma i palestinesi hanno dimostrato di sapersi comportare
diversamente. Eleggono il loro Consiglio legislativo, e i palestinesi che sono
cittadini israeliani eleggono i loro deputati alla Knesset. Morris è convinto
che gli arabi non perdoneranno mai Israele. Levy ribatte che gli ebrei hanno
perdonato la Germania per crimini più orribili; i neri negli Stati Uniti e
nell’Africa del Sud hanno perdonato i bianchi; Francia e Germania sono
diventati alleati dopo la Seconda guerra mondiale. Soltanto i palestinesi non
dovrebbero perdonare?
Uno storico come Morris
dovrebbe sapere che tutto può svolgersi in maniera diversa se Israele assume le
sue responsabilità morali e concrete. Esistono già città arabo-israeliane come
Haifa e Jaffa. Ed esistono tanti modi per tentare una convivenza. Ma quando si
è ultranazionalisti non si trova nulla da discutere con quelli considerati
inferiori. E allora si è portati a credere all’apocalisse, conclude Gideon
Levy.
Quelle di Morris e di
Levy sono posizioni opposte ed estreme. Il panorama politico mediorientale è
cambiato. Israele non è più isolato. Con i Paesi sunniti, dall’Arabia Saudita
all’Egitto, ha un comune nemico: l’Iran sciita degli ayatollah. Benjamin
Netanyahu partecipa a riunioni con dirigenti arabi che un tempo chiedevano la
fine di Israele.
Ma i rapporti al
vertice, tra governi, non corrispondono ai sentimenti prevalenti nelle
popolazioni. Non contribuiscono alla convivenza né il muro eretto tra Israele e
i Territori occupati; né la legge sullo stato-nazione ebraica, approvata in
luglio dalla Knesset, che di fatto fa degli arabo-israeliani cittadini di una
classe inferiore, nonostante la dichiarazione di indipendenza parli di
uguaglianza per tutti i cittadini, senza distinzione etnica o religiosa; né la
riduzione della lingua araba, un tempo ufficialmente la seconda, a lingua a
status speciale. Né del resto gli incontri tra dirigenti arabi e israeliani,
per concertare azioni contro il comune nemico iraniano, hanno cambiato gli
umori ostili delle popolazioni arabe.
Benny Gantz,
l’avversario di Benjamin Netanyahu alle elezioni di primavera, pur auspicando
un dialogo con gli arabi, parla di un’ostilità destinata a durare a lungo.
Netanyahu non la pensa diversamente. E agisce di conseguenza.