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I Netanyahu , il nuovo libro di Joshua Cohen, vincitore del Premio Pulitzer 2022

Anna Momigliano 1 settembre 2022

Rivista Il MUlino 2022

Nell’estate del 2018, un venerdì di giugno, Joshua Cohen andò a trovare Harold Bloom nella sua casa di New Haven. Erano passate poche settimane dalla morte di Philip Roth, dettaglio che qui ha un suo peso, e l’invito era arrivato direttamente, con un’e-mail, dal mostro sacro della critica letteraria, che, a 88 anni, sentiva di avere qualcosa da dire a quel giovane, o quasi giovane, scrittore ebreo americano.

Di quell’incontro Cohen avrebbe scritto un resoconto, a stretto giro, sulla “Los Angeles Review of Books”: “Veniamo da un retaggio simile, Joshua, ma ricorda: le nostre vite sono separate da mezzo secolo,” gli disse Bloom. “Tutti gli scrittori della mia generazione ormai se ne sono andati.” Dove per “scrittori” Bloom intendeva “scrittori ebrei americani” e per “generazione” intendeva quella, appunto, di Philip Roth e Joseph Heller, coetanei di Bloom, ma anche di Saul Bellow e Bernard Malamud, di un decennio più anziani, insomma una generazione con cui è difficile confrontarsi (non ci metto Chaim Potok perché Bloom, che pure ne curò edizioni critiche, lo considerava un autore minore). Ma, soprattutto, una generazione che è entrata a fare parte della cultura americana partendo da una posizione di outsider, quando gli ebrei erano ancora un gruppo socialmente distinto, e respinto, con codici culturali e linguistici altri, un piede a New York e l’altro ancorato in uno shtetl dell’Europa orientale. “La mia prima lingua era lo yiddish, l’inglese non era ancora arrivato nella nostra casa, e neppure nella nostra zona del Bronx,” racconta Bloom.

Ora, premiamo il tasto fast forward fino al 2021. Quando si scopre che, in quella chiacchierata a New Haven, Harold Bloom ha raccontato anche qualcos’altro, di cui non c’era traccia nel resoconto sulla “L.A. Review”. Pare che, quando era un giovane professore a Yale, a Bloom fu affibbiato il compito di “coordinare una visita nel campus di uno sconosciuto storico israeliano di nome Ben-Zion Netanyahu,” ovvero il padre del futuro primo ministro Benjamin Netanyahu. E lo scopriamo perché Cohen ci ha scritto un romanzo, delizioso e perturbante, che poi ha vinto il premio Pulitzer: I Netanyahu. Dove si narra un episodio minore e in fin dei conti trascurabile della storia di una famiglia illustre. In Italia arriverà il 7 settembre, tradotto da Claudia Durastanti e pubblicato da Codice.

Se il titolo è I Netanyahu, al plurale, un motivo c’è. Il romanzo, densissimo e relativamente breve (poco più di 250 pagine), ruota attorno all’intero clan dei Netanyahu, e allo sconvolgimento che portarono, in appena pochi giorni, in una tranquilla cittadina universitaria americana. C’è Ben-Zion, descritto come uno storico che si sente in missione per conto di Dio, o meglio del popolo ebraico, dalle credenziali accademiche controverse, tanto basate più sull’ideologia che sui fatti sono le sue ricerche, almeno nella ricostruzione che ne fa Cohen. C’è sua moglie Tzila, personificazione della yiddish mame invadente, e ci sono i tre figli: Yonathan, il futuro eroe martire, che sarebbe morto guidando la missione per liberare gli ostaggi a Entebbe nel 1976, e qui rappresentato come un adolescente dongiovanni; Benjamin, il figlio di mezzo, il futuro primo ministro che tutti conosciamo, il più famoso della famiglia, ma che nel romanzo funge per lo più da spalla di Yonathan; e infine Ido, il minore, destinato a diventare medico e poi autore teatrale senza infamia e senza lode, qui in veste di ciclone col pannolino.

Al clan dei Netanyahu, tutti personaggi storici, sono affiancati altri personaggi che strettamente storici non sono, anche se non è difficile capire a chi siano ispirati. A partire dal protagonista, un tale professore Ruben Blum, alter ego di Harold Bloom, che però è un economista, non un critico letterario, e non insegna a Yale, ma in un immaginario college di medio prestigio. La dicotomia tra Netanyahu, nel senso di Ben-Zion, e Blum (o Bloom?) è il perno su cui ruota la vicenda. Da un lato l’aggressività e l’ossessione persecutoria di Netanyahu, figlio del Sionismo revisionista, di destra, che fu di Ze’ev Jabotinsky, in quegli anni relegato ai margini della vita politica e intellettuale israeliana ma destinato a diventare maggioritario nel tempo. Dall’altro lo spaesamento di Blum, accademico di successo, certo, ma di successo recente; professore rispettato, ma ancora guardato dall’alto in basso dai suoi colleghi, che appartengono all’élite anglosassone protestante, e infatti si sentono d’imporgli di fare da anfitrione a uno storico israeliano, perché, questo il sottotesto, tra voi ebrei vi capite. Netanyahu è pervaso da un senso di precarietà esistenziale, Blum da una precarietà sociale, entrambi sentimenti molto ebraici, il timore dell’annientamento, da un lato, e dall’altro la paura di essere ricacciati nei ghetti da cui si era appena usciti: è lo scontro tra l’israeliano e l’ebreo della diaspora.

Ma c’è un’altra tensione, più sottotraccia, che si fa sentire: la contrapposizione, più o meno implicita, tra cosa significa essere ebrei in America oggi e cosa significava esserlo ieri, l’antitesi tra l’identità di chi scrive e l’identità di chi è descritto.

Blum incarna un momento liminale dell’esperienza ebraica in America, quando gli ebrei cominciavano a non essere più, o prevalentemente non più, relegati ai margini della società ma non erano ancora pienamente accettati a fianco dei protestanti anglosassoni, tanto che il lettore noterà tracce del mondo di Pastorale Americana, o quello di Ombre sullo Hudson. Era l’epoca in cui sono cresciuti Philip Roth e Harold Bloom. Non è, evidentemente, il mondo di Joshua Cohen, che, classe 1980, è cresciuta in un’America dove gli ebrei, o, meglio, un certo tipo di ebrei laici, colti e benestanti, erano già perfettamente integrati nel tessuto socio-economico e dove, in alcuni campi, come appunto la letteratura, alcuni codici dell’identità ebraica erano addirittura permeati al di là della loro giurisdizione (basti pensare all’utilizzo che David Foster Wallace, già una generazione prima di Cohen, faceva della parola yiddish “nudnik”).

Cohen fa parte della stessa leva di scrittori ebrei americani che ha prodotto Shalom Auslander (1970); Jonathan Safran Foer (1977), Gary Shteyngart (1972), Rivka Galchen (1976) e Ben Lerner (1979) e che potremmo definire la prima generazione di scrittori cresciuti in un’America, in una certa America, dove l’identità ebraica era interamente normalizzata. In alcuni di questi autori c’è una marcata spinta a giocare con i modelli che li hanno preceduti, non una ma due generazioni prima, a confrontarcisi, a rivisitare l’identità ebraica con la sua alterità, che oggi è sempre meno un’alterità, o che, forse, lo è in modo più sottile. E’ precisamente quello che fa Cohen, ne I Netanyahu, quando mette in scena lo scontro-incontro tra Ben-Zion Netanyahu, il padre del premier che avrebbe plasmato l’Israele di oggi, e l’alter ego di Harold Bloom, il raffinato intellettuale nato in un East Bronx dove ancora si parlava yiddish. L’unica pecca, che non è gran cosa, sta nell’avere messo un po’ troppa carne al fuoco, nell’ansia di dire molto, e forse spiegare un po’ troppo, in poco spazio.

Dell’opera di certi poeti Bloom diceva che si faceva sentire l’angoscia dell’influenza, un rapporto irrisolto con l’eredità lasciata dai loro precursori. Lo stesso si potrebbe dire di certi scrittori contemporanei e, tra questi, Cohen è senza dubbio uno dei più brillanti.

Anna Momigliano

Rivista il Mulino 2022

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Addio a Corrado Israel De Benedetti, un pioniere del Sionismo

3 Agosto 2022 da Mosaico

Corrado Israel De Benedetti è mancato nel suo Kibbutz, Ruchama, il 2 agosto, all’età di 95 anni. Nato a Ferrara nel 1927, nel novembre 1949, dopo le traversie della guerra e dell’occupazione nazista, scelse l’alyà in Israele, alla quale si era addestrato nel movimento pionieristico Hechaluz,  e con i compagni si stabilì nel kibbuz di Ruchama nel Neghev settentrionale (che era stato fondato da ebrei russi nel 1911) dove ha speso tutta la sua lunga e straordinaria esistenza.

Nel 2013 aveva ricevuto  l’onorificenza Stella al Merito del Lavoro rilasciata dal Presidente della Repubblica italiana Giorgio Napolitano.

Ha raccontato le sue scelte, i suoi amori, la sua passione per Israele e il sionismo, in diversi libri: I sogni non passano in eredità (Giuntina, 2001)  nato per chiarire “a chi l’ha scritto e a chi lo vorrà leggere il succedersi dei cambiamenti nella vita di un kibbuz, che hanno portato questo modello di vita comunitaria a un graduale rigetto dei valori socialisti su cui si fondava. Cause ed effetti del processo tuttora in corso si possono intravedere seguendo le vicende di un membro del kibbuz, uno tra le decine di migliaia che scelsero di vivere questa esperienza straordinaria”; Anni di rabbia e di speranze, 1938-1949 (Giuntina, 2003) dove, dalla scuola ebraica di via Vignatagliata alla strage del 15 novembre 1943, dalla fuga in Romagna al ritorno a casa si snoda la storia di un ragazzo ebreo ferrarese negli anni bui delle persecuzioni, della guerra, del terrore. Ma con il ritorno a Ferrara comincia un’altra avventura: l’affermazione della propria identità ebraica, la militanza nel movimento sionista, la preparazione per l’emigrazione in Israele, alla ricerca di una nuova vita e di nuove speranze; Racconti di Israele (Le Château Edizioni, 2011) e  Un amore impossibile nella bufera (Claudiana, 2013) del quale disse “Sul mio romanzo è stato detto che non ci sono tre protagonisti, ma è la Storia che è la protagonista; ed è quello che ho cercato di dire, perché l’atmosfera che si respirava a Ferrara nell’estate del ’38, quando eravamo giovani noi, cambiò radicalmente nel settembre con le Leggi razziali e ancora di più nel luglio del ’40, quando l’Italia entrò in guerra. La mia generazione ha dovuto chiudere il cassetto dei sogni cercando di rimanere con la testa fuori dall’acqua”. E ancora: “È come se avessimo un’idea molto chiara della vita; ci siamo sposati giovani, abbiamo scelto la nostra vita da giovani e la vita stessa è iniziata da subito. Uno dei meriti, forse l’unico, che ho ricevuto dalla Storia è stato quello di dover scegliere la strada che volevo percorrere”. E la strada è stata quella dell’alyià, del kibbuz.

Corrado Israel De Benedetti era nato a Ferrara nel 1927, da una famiglia della media borghesia ebraica ferrarese. Il padre, ufficiale di carriera del Regio Esercito Italiano, ne fu espulso in seguito alle leggi razziali. Negli anni della Repubblica Sociale Italiana la famiglia si nasconde sotto falso nome in Romagna, per evitare la deportazione. Dopo la Liberazione De Benedetti si iscrive all’Università di Ferrara. Contemporaneamente entra nel movimento Hechaluz che organizza giovani ebrei per emigrare in Palestina. È in questa prospettiva che nel 1947, lascia Ferrara e la famiglia per recarsi con un gruppo di compagni nella fattoria di S. Marco (Pontedera) e prepararsi alla vita di kibbuz. Per due anni è membro della direzione del movimento Hechaluz e redattore dell’omonimo quindicinale che si stampa a Pisa. Nel novembre 1949 “sale” in Israele e con i compagni raggiunge il kibbuz di Ruchama nel Neghev settentrionale. In kibbuz ha ricoperto l’incarico di direttore d’azienda e successivamente di segretario. Ha fatto parte della direzione economica del movimento kibbuzistico; più volte è stato inviato in Italia a rappresentare sia il movimento giovanile sia l’Organizzazione Sionistica Mondiale. È stato membro della direzione del Partito Merez, della sinistra israeliana.

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È morto Abraham Yehoshua, scrittore israeliano di fama internazionale

Aveva 85 anni. Autore di romanzi di successo da “Un divorzio tardivo” a “L’amante”. L’ultimo era dedicato all’Italia

di Wlodek Goldkorn La Repubblica 14 giugno 2022

Il suo ultimo libro, specie di congedo da questo mondo, è stato un libro d’amore per l’Italia, Paese che Abraham B. Yehoshua, scomparso all’età di 85 anni, considerava la seconda patria. La figlia unica, un romanzo breve o “una novella italiana”  come diceva l’autore, ambientato fra Venezia e Padova, è anche un omaggio a una delle due identità dello stesso scrittore. In questa caso: l’identità che lui definiva mediterranea. La prima era, ovviamente, quella dell’israeliano. Israeliano, a sua volta, significava “pienamente ebreo”, al contrario dei confratelli e consorelle della diaspora, divisi fra l’attaccamento al ricordo mitologico di Gerusalemme e la vita nei luoghi in cui abitano, e per questo nevrotici. Yehoshua, sionista convinto, teorizzava la necessità degli ebrei di essere una “nazione normale”, con un territorio, una sovranità e una lingua: l’ebraico moderno. Valga un ricordo personale. Era gennaio 2011. Sul display del telefono appare il nome con cui lo chiamavano gli amici, Buli. “Sono ad Auschwitz”, dice. Racconta le sue emozioni e poi: “Ho un’idea in proposito”. Quell’idea, semplificando e radicalizzando, era: la Shoah è stata la conseguenza del rifiuto degli ebrei di misurarsi con la categoria della Patria.

Il fascino dell’autore e della persona

Scrittore che con le parole sapeva fare qualunque cosa (ci torneremo), il fascino che Yehoshua esercitava da persona su chi l’abbia conosciuto da vicino, era dovuto alla sua genuina curiosità: non smetteva di porre domande, era impaziente ad avere le risposte; a un certo punto, dell’Italia voleva sapere tutto, e stava sognando di prendere per un certo periodo una casa, in Toscana o in Umbria; e poi la sua generosità, il senso dell’amicizia: dava moltissimo ma chiedeva altrettanto, soprattutto esigeva onestà e senso critico  (“dimmi cosa non ti piace”, esortava, “non mi devi confermare nella mia capacità di scrivere”) e potrei continuare.  

Yehoshua amava presentarsi come “quinta generazione nata a Gerusalemme”, a sottolineare il suo radicamento nella Terra degli antenati. Il padre, Yaakov, discendente di una famiglia originaria di Salonicco, era un orientalista, aveva molti rapporti con gli arabi palestinesi della città, verso la fine della  vita scrisse un’opera di dodici volumi sulla comunità sefardita locale. La madre Malka Rosilio, veniva da una famiglia di rabbini del Marocco, adorava la cultura, la lingua francese, l’Europa. Ecco, Yehoshua, qualche volta raccontava che l’idea di scrivere Il signor Mani, un romanzo che narra appunto cinque generazioni di ebrei sefarditi e il loro rapporto forte con Gerusalemme e con l’identità di famiglia, considerato il suo capolavoro, gli venne in mente durante i funerali del padre. Che volle che il luogo del suo eterno riposo fosse un vecchio cimitero, quasi caduto in disuso, fra lapidi divelte.

Contraddizioni e creatività

Sostenitore della “normalità” sinonimo della “sovranità”, come si diceva, Yehoshua era anche un uomo pieno di meravigliose (perché foriere di creatività) contraddizioni. E così, nel 1967, al ritorno di una lunga permanenza a Parigi, assieme alla moglie Rivka, psicoanalista saggia, intelligente e bellissima, che gli amici chiamavano Ika e di cui era follemente innamorato fino alla fine degli ultimi giorni di lei (nel 2016, da quel lutto non era mai uscito, e il rapporto con lei lo raccontò, sublimato, in Il tunnel), tornati dunque da Parigi, i due decisero di stabilirsi a Haifa. Haifa è una città laica, porto di mare, raffinerie e forte presenza di residenti arabi. Non avevano alcuna intenzione di abitare in una Gerusalemme, la cui parte orientale, compreso il Muro del Pianto, era stata appena conquistata da Israele. “Troppi simboli, troppa religione, troppo pesante il passato”, spiegava. E del resto, a un certo punto, Yehoshua cominciò a teorizzare la necessità dell’oblio, come fatto psico-politico. La troppa memoria degli ebrei e dei palestinesi, paralizzava ogni sforzo di trovare la soluzione al conflitto. Quale soluzione? Uno Stato binazionale, ebrei e arabi insieme, perché altrimenti l’occupazione si sarebbe trasformata in apartheid.

Si è detto che nessuno come lui sapesse usare le parole in ebraico. La sua padronanza della lingua sfiorava la perfezione, così come l’architettura dei  romanzi. Su incipit lavorava per settimane, qualche volta mesi, perché nelle prime pagine doveva esserci il Dna di tutta la storia. Fatto questo, i protagonisti conquistavano una certa autonomia rispetto all’autore.  Diceva: “Sai, quello (e  faceva il nome del protagonista inventato) mi ha sorpreso, ha fatto il contrario di quello che mi sarei aspettato”. Oppure: “Volevo farlo morire  ma si è rifiutato”. E rideva. E per tornare alla scrittura, in ogni romanzo cambiava registro e ogni protagonista aveva una voce diversa, originale e difficile da imitare. Anche nei romanzi meno riusciti, ci sono pagine e pagine di vero virtuosismo, con una maniacale attenzione ai dettagli, quasi tecnici. Lui citava l’influenza che subì di Faulkner e di Kafka (“per me la martora animale antico, del racconto Nella nostra sinagoga, di Kafka, è l’essenza dell’ebraismo”) e ricordava quanto da giovane fosse affascinato da surrealismo. Dopo un lungo periodo a Haifa, si trasferì a Tel Aviv per essere vicino ai nipoti. Abitava in una casa luminosa. Quando sentì dire che sapeva descrivere la luce come pochi altri, forse solo come Camus la luce algerina, rispose di non essere bravo a descrivere gli oggetti e allora si fa aiutare dalla luce.

Fra i romanzi che resteranno a lungo: Un divorzio tardivoL’AmanteViaggio alla fine del MillennioCinque stagioniRitorno dall’India. Ma ha scritto pure saggi e opere teatrali. Lodatore della normalità era invece maestro nel raccontare l’impossibilità di essere normali e i disastri della vita familiare. Eppure, ripeteva: “Sono l’ultimo difensore della famiglia”.

Nell’estate sempre del 2011, Yehoshua, assieme a Ika, era a Pietrasanta. Gli proposi di venire a Sant’Anna di Stazzema. Mi chiese perché. Gli risposi che  volevo fargli vedere un luogo di dolore altrui. Raccontare la sua commozione durante la visita richiederebbe la sua penna. Quelle vittime, italiane, assassinate dai nazisti, erano fratelli e sorelle, parte della famiglia. 

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La rivoluzione ebraica nel nuovo libro di Emanuele Fiano

Michele Serra – La Repubblica 28 Febbraio 2022

L’identità ebraica, alla luce dalla grande varietà e disparità delle sue espressioni storiche, dal colono israeliano nazionalista all’intellettuale disincantato, dall’inestirpabile legame con le radici culturali e religiose a una rivendicata indifferenza soprattutto nei confronti delle seconde, è davvero molto complicata da definire. Ebrei sono Philip Roth e Woody Allen, ebrei gli haredim ultraortodossi di Gerusalemme, ditemi se esiste un nesso percepibile…


Ciò che risulta evidente anche al profano è che la millenaria diaspora, culminata con il genocidio programmato dal nazismo, non è bastata a disperdere un seme culturale così tenace da sembrare indistruttibile. Un seme irriducibile a qualunque luogo comune o pregiudizio “razziale”, compreso quello “buono” della cosiddetta superiorità ebraica: “gli ebrei sono più intelligenti”. A quest’ultima, diffusa opinione, che rimanda a una differenza indimostrabile (antiscientifica, si direbbe con un termine molto di moda), Emanuele Fiano dedica alcune delle migliori pagine del suo libro Ebreo. Una storia personale dentro una storia senza fine.


Il libro ha il pregio (e il coraggio) di calare nella storia privata dell’autore i tanti contenuti saggistici e bibliografici, come se ragionamenti e sentimenti, teoria ed esperienza fossero, gli uni senza gli altri, insufficienti a capire, e a farsi capire. Così, nel lungo racconto, il giovane Fiano, ancora adolescente, mette a fuoco il disagio della differenza non solamente di fronte allo spregio razzista manifestato da alcuni “sancarlini” (furono una sottospecie dei “sanbabilini”), ma anche quando, durante una visita medica, il dottore, scoprendo che Emanuele è circonciso, elogia, con intenzione benevola, la superiore intelligenza degli ebrei. Ottenendo, al contrario, un effetto di muto fastidio.

EMANUELE FIANO, POLITICO


Figlio di un deportato ad Auschwitz (unico scampato della sua famiglia), deputato del Pd, architetto, milanese e per anni dirigente della comunità ebraica della sua città, Fiano mette sul tavolo i tanti materiali del suo ebraismo assecondando un’idea di partenza, diciamo un’idea ordinatrice, che fa da filo conduttore all’intero racconto, dalle esperienze giovanili nei kibbutz socialisti alle letture adulte, dal doloroso rapporto con una memoria familiare straziata dalla Shoah al suo lavoro politico, dalla discussione sui testi sacri alla vita quotidiana di un italiano come tanti. L’idea è questa: dall’Illuminismo in poi – diciamo dall’inizio della modernità culturale – l’ebraismo in larga parte si è secolarizzato. E in virtù delle sue stesse radici religiose e culturali ha generato un pensiero al tempo stesso critico dell’esistente e ottimista sul futuro. Comunque teso a “non rimanere nella condizione che ti ha generato”, a cambiare, migliorare, muoversi, mettersi in cammino.


Accadde, nel Settecento, che il messianesimo della tradizione (l’attesa del Messia e della salvezza) “fu collegato all’idea del progresso eterno e del compito infinito dell’umanità di perfezionarsi”. Al concetto di “redenzione”, cioè del ritorno salvifico a un Regno passato, subentra quello di “progresso”, un lungo cammino senza fine verso il futuro, verso condizioni umane più degne, libere dalla schiavitù. L’attesa messianica si trasforma “nel compito di realizzare la giustizia nella storia, un compito che ogni uomo deve assolvere in prima persona”.


Questa lettura dell’ebraismo trova evidenti argomenti a favore nell’impressionante numero di pensatori e leader politici ebrei che, a cominciare da Marx, hanno segnato la storia dei movimenti rivoluzionari e di liberazione. Lo stesso concetto di “liberazione” (ne parla anche Gad Lerner nel suo libro L’infedele, con accenti molto simili a quelli di Fiano) è impresso nell’identità ebraica quasi come un dovere, o un’investitura.


La ricerca di territori dove trovare scampo, la fuga dalle persecuzioni, tutto ciò che Fiano chiama “il giogo del presente”, non respingono verso il passato e verso la nostalgia, spingono verso il futuro e verso il mutamento. È la “futura umanità” del socialismo che si libera dalle proprie catene perché ha deciso, finalmente, di mettersi in viaggio. “Il viaggio – scrive Fiano – è l’immagine che più si addice a raccontare cosa sia l’esperienza ebraica”.


Fiano non pretende dogmaticamente “vera” questa lettura “di sinistra” dell’ebraismo, ma la sposa fortemente, anche come portato della sua esperienza individuale, fino a sostenere che “la matrice del pensiero ebraico è una matrice di progresso, chi non la interpreta così fa un torto alle nostre radici”.


A questa lettura molto politica dell’identità ebraica, Fiano affianca una lettura profondamente laica (mi permetto di definirla così) anche della tradizione religiosa e testuale. “Nell’ebraismo la dottrina non esiste e al suo posto c’è la discussione sui testi, l’accumulo indefinito delle chiose ai libri sacri, la riflessione che ai pensieri di chi è morto aggiunge quelli dei vivi”. Questa concezione non dottrinaria dell’ebraismo è rivendicata spesso, se non soprattutto, da molti ebrei non ortodossi e non credenti, che rivendicano il metodo della confutazione, della discussione, del dubbio come matrice anti-dogmatica della cultura ebraica, e come veicolo formidabile di perfezionamento intellettuale (ahi, qui si rischia di ricadere nel mito della “superiore intelligenza” degli ebrei). Vengono in mente gli spettacoli di Moni Ovadia, il proverbiale umorismo ebraico (niente come lo humour necessita di un cortocircuito critico…), lo stuolo interminabile di talenti ebrei in campo artistico e intellettuale.


E a costo di addentrarsi in un terreno minato va detto che sì, qualcosa di “diverso”, nelle radici dell’ebraismo, deve pure esserci, visti i copiosi frutti nonostante persecuzioni e ghetti. C’è un “modulo pedagogico”, come lo definisce Fiano, che dal libro dell’Esodo trascina e costringe chi lo adotta a non farsi mai bastare quello che è scritto, quello che già c’è. Come scrive David Bidussa a proposito del Talmud, “accanto a questi testi e intorno a questi testi rimane un margine di bianco considerevole. La cultura ebraica e l’ebraismo è esattamente quel margine bianco, ovvero è la possibilità e la plausibilità di aggiungere altri testi. Ovvero di continuare il testo”.

Il libro. Ebreo di Emanuele Fiano è edito da Piemme (pagg. 169, euro 17,50)

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Amos Gitai, Rabin: l’inquieta memoria della speranza infranta

Percorsi. «Yitzhak Rabin. Cronache di un assassinio», per La nave di Teseo. Il 4 novembre 1995 il premier laburista fu ucciso a Tel Aviv da un colono di estrema destra. In un volume l’epilogo, momentaneo, del lungo lavoro svolto dal regista israeliano intorno a quella vicenda. «Lui era un generale e io solo un architetto costruttore di film. Sono probabilmente le normali relazioni tra una figura che plasma la realtà e un’altra che modella la memoria»

Come il tratto che contraddistingue da sempre le sue opere, anche la lunga indagine che Amos Gitai ha dedicato all’uccisione del primo ministro israeliano Yitzhak Rabin assomiglia ad un ostentato piano sequenza, in grado di catturare senza apparente contraddizione, o proprio in virtù della loro natura irriducibile, tutti gli elementi della scena. Rabin cadde il 4 novembre del 1995 a Tel Aviv, al termine di un comizio in difesa della pace, sotto i colpi di un giovane colono estremista, Ygal Amir. La sua scomparsa aprì la strada all’affermazione della destra nazionalista e religiosa e la chiuse alla possibilità di un dialogo costruttivo nella prospettiva di una pace giusta con i palestinesi, processo in cui il politico laburista si era impegnato in prima persona – e proprio per questo fu ucciso – siglando nel 1993 gli accordi di Oslo con il leader dell’Olp Yasser Arafat; entrambi saranno insigniti l’anno successivo del Nobel per la pace.

I VENTICINQUE ANNI trascorsi da quella tragedia non hanno mutato la prospettiva dello sguardo di Amos Gitai, ne hanno piuttosto affinato ulteriormente le lenti critiche, messo a punto in modo ancora più esplicito l’orizzonte all’interno del quale si iscrive quella che lo stesso regista israeliano definisce come la «strategia cinematografica, teatrale e museale» che ha sviluppato intorno alla figura e all’omicidio di Rabin. L’esito, necessariamente solo momentaneo di questo percorso è raccolto in Yitzhak Rabin. Cronache di un assassinio che La nave di Teseo propone ora nella bella traduzione di Raffaella Patriarca (pp. 240, euro 30). Il libro ripercorre l’ispirazione e gli snodi dell’«opera Rabin», la serie di lavori dedicati da Gitai all’argomento fin dal 1994 e che sembra costituire una sorta di percorso interno, ad un tempo intimo e assolutamente politico, come spesso solo la drammaturgia riesce ad essere, nel più vasto corpus narrativo del regista, tanto da racchiuderne non solo alcuni dei segni distintivi, ma, si sarebbe portati a credere, anche tutta la determinazione e l’urgenza del racconto.

Due piani, strettamente intrecciati, definiscono l’itinerario, perché Gitai appare rispondere implicitamente a due tipi di interrogativi: da un lato c’è l’intellettuale critico auto-esiliato a Parigi dopo che in Israele le sue opere subiscono spesso la censura e l’ostracismo delle autorità che sceglie di tornare a Gerusalemme proprio in seguito all’elezione di Rabin considerata l’inizio di una possibile svolta. Dall’altro c’è «il costruttore di film», definizione che il regista utilizza per delineare il proprio lavoro anche in riferimento all’opera del padre, come lui architetto, Munio Gitai Weinraub, tra i protagonisti del Bauhaus e, dopo la fuga dal nazismo verso Israele progettista del Museo dell’Olocausto dello Yad Vashem, che si misura con la storia che si fa presente del suo Paese.

GITAI STESSO AFFIDA a due poemi, intorno a cui si muove il volume che si compone anche dei testi di critici, storici e dei suoi più stretti collaboratori, il senso ultimo di questo intimo procedere che lo interroga a più livelli ad ogni passo. «Rabin era un generale e io sono solo un architetto, figlio di architetto, padre di architetto, costruttore di film. Sono probabilmente le normali relazioni tra una figura che plasmava la realtà e un’altra che modella la memoria», scrive il regista in Mi sono seduto alla scrivania per cercare di scrivere su Rabin.

Ciò che si svolge davanti e dietro alla macchina da presa sembra perciò indagare le tracce che quell’atto sta lasciando nel suo stesso compiersi. Accanto al gesto affettuoso, all’emozione, alla paura, emerge ciò che lo storico israeliano Ouzi Elyada definisce come la costante «proprietà riflessiva» della storia per immagini proposta da Gitai. E, come aggiunge il critico Antoine de Baecque, a lungo firma di Libération, è il concetto di «luogo della memoria», preso in prestito da Pierre Nora, a permettere di «analizzare la “contro-storia” collocata dal regista nei luoghi che gli sono cari, come se, in un immaginario israeliano particolarmente attento agli spazi della memoria, Amos Gitai forgiasse una sua propria architettura della memoria, sempre critica nei confronti della storia ufficiale del suo Paese».

NEL VOLUME SCORRONO le immagini e il significato dei lavori cinematografici, a partire dai quattro documentari riuniti sotto al titolo di Give Peace a Chance che raccontano gli sforzi compiuti dal governo Rabin nella costruzione di un dialogo costruttivo con i palestinesi. Si passa quindi a The Arena of Murder, il film girato attraverso Israele all’indomani dell’assassinio del premier e che testimonia dell’emozione di un Paese ferito – ai funerali di Rabin parteciparono circa un milione di persone – ma allo stesso tempo profondamente diviso e dove i segnali della minaccia rappresentata dall’estrema destra erano già evidenti.

L’approdo, parziale, arriva con Rabin, the last day, una nuova pellicola che nel 2015, a vent’anni esatti dalla tragedia torna ad indagare sulla vicenda, mettendo insieme immagini di repertorio e «fiction» per dare voce ai molti interrogativi rimasti ancora senza risposta, a partire dalle responsabilità dei politici nazionalisti, primi fra tutti quel Benjamin Netanyahu che sarebbe diventato Primo ministro dopo l’uccisione di Rabin, che avevano più volte indicato alle piazze degli estremisti proprio Rabin come un simbolo da eliminare.

Decine di ore di girato, centinaia di interviste, un’indagine che in parte si sovrappone a quella svolta sull’accaduto dalla Commissione d’inchiesta ufficiale che sceglierà però di non approfondire «la cultura dell’odio» che aveva condotto a quell’omicidio, malgrado proprio a Gitai il giudice Meir Shamgar, alla guida della Commissione, spiegherà l’«obbligo» per la società israeliana di procedere ad una profonda «introspezione» riguardo a quanto è accaduto.

PER IL REGISTA ISRAELIANO si tratta però solo di una parte del lavoro d’inchiesta svolto intorno alla figura di Rabin e alla sua tragica fine. Vanno infatti ricordate anche un’opera teatrale, delle mostre – una delle quali legata all’uscita di Rabin, the last day è passata anche per il Maxxi di Roma nel 2016 – e un’altra, dal titolo Yitzhak Rabin/Amos Gitai, allestita presso la Bibliothèque nationale de France di Parigi è stata accompagnata dalla donazione all’istituzione francese da parte di Gitai dell’enorme massa di documenti, oltre 30mila tra immagini, girato e testi che costituiscono l’insieme dell’«opera Rabin».

COME IN BUONA PARTE dell’itinerario d’autore del regista, anche il sogno incarnato da Rabin e il suo rapido e tragico tramonto si intreccia con quesiti che riguardano l’intera vicenda storica israeliana. Gitai ricorda come Rabin avesse parlato apertamente del ruolo svolto nel 1948 come ufficiale dell’esercito che cacciò i palestinesi dalle loro case, spiegando come il solo fatto di averlo ammesso creava le condizioni per la fiducia necessaria al dialogo, Allo stesso modo, evoca due donne, Rosa della famiglia Rabin e Esther della propria che sventolavano la bandiera rossa il primo maggio e immaginavano la nascente Israele intrecciata ai miti di un socialismo umanista che si affermava attraverso i kibbutz.

Un percorso simile a quello che Gitai ha compiuto alcuni anni fa ricostruendo in un volume attraverso la corrispondenza di sua madre, Efratia Gitai (Storia di una famiglia ebrea, Bompiani, 2012), il senso di una scommessa, la portata di un’utopia che si è misurata tra mille contraddizioni con la rudezza della realtà. Il punto, scrive Gitai, è che l’omicidio di Rabin ha per molti versi rappresentato la fine definitiva di un percorso, di un processo storico verrebbe da dire. E l’orribile realtà che è sotto gli occhi di tutti sta lì a dimostrarlo. Bisogna perciò continuare ad interrogarsi, «affinché nessuno dimentichi. E ognuno di questi atti, a modo suo, diventi un gesto civile di conservazione e archiviazione dei ricordi».

Guido Caldiron Il Manifesto 15-01-2022

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