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ISRAELE, IL SUDAFRICA, L’ALGERIA E NOI

Che cosa si sottintende quando, soprattutto in alcuni ambienti intellettuali di sinistra, si parla di decolonizzazione a proposito di Israele?

Anna Momigliano , Il Mulino

23 OTTOBRE 2023

Mi rendo conto che si pone un problema di opportunità. Mentre scrivo, fatti atroci si susseguono a velocità sostenuta, a Gaza c’è una crisi umanitaria senza precedenti, il numero di morti palestinesi ha superato quello delle perdite israeliane. E allora comprendo bene che, quando mi metto a discutere di categorie analitiche e dei torti di una parte della sinistra verso gli israeliani, il rischio di sembrare fuori luogo c’è tutto. Eppure, mi dico, il bello di scrivere per una rivista che si fregia di contribuire a tenere a galla quel poco di dibattito intellettuale che resta in Italia sta anche qui, nell’avere il lusso di fermarsi a ragionare su come ragioniamo.

Mettiamo da parte, per un secondo, i fatti di queste settimane, per riprenderli più in là. Negli ultimi anni ci sono stati due sviluppi interessanti del dibattito a sinistra. Primo, la riscoperta dei valori anticoloniali, che già in passato hanno avuto un peso rilevante, ma che recentemente sono stati rispolverati e attualizzati come chiave di lettura della contemporaneità. Secondo, la diffusione del framing dell’apartheid per descrivere l’occupazione dei Territori palestinesi. È un tema delicatissimo, di cui mi ero occupata sul fascicolo n. 2/2023, ma, in estrema sintesi, può essere riassunto così: Israele controlla di fatto la Cisgiordania, seppure non l’abbia formalmente annessa; in Cisgiordania vivono palestinesi e coloni israeliani, ma ai primi si applica la legge militare, ai secondi la legge civile; i primi non possono votare il governo che di fatto decide delle loro vite, i secondi sì; dunque c’è un territorio dove convivono due popolazioni, una sola delle quali gode di pieni diritti; e l’applicazione di due leggi e due sistemi di diritto a due popolazioni che vivono nello stesso luogo è, per definizione, apartheid.

Dunque, si diceva, abbiamo avuto queste due evoluzioni nel dibattito a sinistra. E si tratta, nella mia opinione, di due sviluppi positivi.

Adesso però veniamo ai fatti di oggi. Quello che è successo è che Hamas ha massacrato centinaia di civili israeliani, uomini, donne e bambini, stanandoli nelle loro case, e una parte della sinistra – certamente minoritaria, ma non del tutto marginale – l’ha considerato un atto di resistenza anticoloniale. In alcuni casi, ha persino festeggiato. Gli episodi più estremi arrivano dagli Stati Uniti: il professore di storia a Cornell che ha definito l’attacco di Hamas “esilarante” ed “energizzante”, perché sovvertiva il monopolio della violenza; oppure la docente di American Studies all’Università della California che ha twittato “è facile avvicinare i giornalisti sionisti, hanno case con indirizzi, figli a scuola” aggiungendo hashtag con coltello insanguinato. Nella mia bolla ho pizzicato gente a sfottere sui social media conoscenti israeliani – non il popolo israeliano in astratto, eh, persone reali con cui avevano studiato e lavorato – che stavano sotto le bombe. Meno agghiacciante, ma più sintomatica, l’ormai famigerata dichiarazione di una trentina di associazioni studentesche di Harvard, secondo cui “il regime di apartheid israeliano è l’unico responsabile della violenza”, dove il problema stava nell’affermare che ci fosse una responsabilità – dunque una colpa – unica. Ergo, se ne deduce che gli assassini abbiano agito secondo diritto, o per lo meno senza passare dalla parte del torto.

Altri si sono già soffermati sulla bancarotta morale che questi ragionamenti tradiscono. Io però vorrei soffermarmi sulla bancarotta intellettuale che si nasconde dietro a certe uscite. C’è gente che, da una posizione sedicente di sinistra, si schiera a favore dell’attacco indiscriminato contro i civili israeliani, di stampo marcatamente terroristico – nel senso più letterale del termine, ovvero il cui obiettivo è terrorizzare la popolazione. E lo fa perché è convinta che terrorizzare la popolazione israeliana, all’interno dei confini internazionalmente riconosciuti di Israele, sia un atto di decolonizzazione. Lo fa perché pensa che Israele – non solo i Territori occupati, ma Israele in sé – debba essere decolonizzato. Alla radice di questo modo di pensare, c’è un approccio pigro, approssimativo (e, non ultimo, frutto di un’assenza di riflessione) sulla natura coloniale di Israele. Che, per carità, esiste, ma meriterebbe di essere affrontata in modo quanto meno serio.

Davanti a intellettuali di sinistra che difendono attacchi terroristici contro la popolazione israeliana, il parallelo immediato è quello con l’Algérie française

Davanti a intellettuali di sinistra che difendono attacchi terroristici contro la popolazione israeliana, il parallelo immediato è quello con l’Algérie française. Per più di cento anni, tra il 1848 e il 1962, l’Algeria è stata parte integrante della Francia (non, dunque, una colonia, com’era stata in precedenza), pur mantenendo una caratteristica tipicamente coloniale: la maggioranza dei suoi abitanti, arabi musulmani, non aveva diritto di cittadinanza, ma conviveva con una grande minoranza (circa il 10%) di abitanti di origine francese, che godeva di piena cittadinanza. Quando il movimento per la liberazione algerina si energizzò, a partire dagli anni Cinquanta, lanciò una serie di azioni, anche violentissime e di natura esplicitamente terroristica, contro la popolazione civile dei pieds-noirs: l’obiettivo era rendere la loro vita impossibile, convincerli ad andarsene. La decolonizzazione passava dal cacciare i francesi, non soltanto la Francia. Molti da sinistra, con i dovuti distinguo, solidarizzavano con questa lotta, dove il fine giustificava i mezzi.

Tornando ai giorni nostri, è evidente che una fetta, piccola ma non trascurabile, della sinistra occidentale legge la realtà israeliana secondo il paradigma algerino. L’oppressione palestinese si risolve perseguitando la popolazione israeliana al punto da convincerla a fare le valige: è la decolonizzazione, bellezza. Quello che sfugge è che c’è una differenza, fondamentale, tra Israele e l’Algérie française: a differenza dei pieds-noirs, gli israeliani non hanno una “Francia” a cui tornare. Si ha un bel dire “rimandiamoli da dove vengono”, ignorando che molti israeliani discendono da luoghi – il Marocco, lo Yemen, la Polonia – dove sarebbe impensabile ritornare. Più seriamente, poi, la popolazione israeliana è radicata lì, ormai esiste una realtà normalizzata, una nazione, un’identità israeliana, che magari a qualcuno può non piacere ma è un dato di fatto.

Israele non è l’Algeria. È un caso di quello che alcuni studiosi definiscono, con efficacia, “settler-colonialism” che ricorda più Stati Uniti, Canada e, non per ultimo, il Sudafrica (anche l’Algeria era un esempio di “settler-colonialism”, ma un po’ peculiare, visto il mantenuto rapporto con la metropoli). Il termine, che spesso viene usato, non sempre con cognizione di causa, anche tra i militanti anti-israeliani più beceri, in realtà è assai utile per guardare con lucidità la realtà sul campo. Arnon Degani, un accademico israeliano che consiglio di leggere, ha scritto a proposito un interessante articolo divulgativo su “Haaretz”. “Il settler-colonialism non è semplicemente un colonialismo che ha insediamenti. È una formazione storica che spesso è un complemento dei progetti coloniali ma che, va sottolineato, è analiticamente distinto”. E ancora:

“La violenza coloniale punta a sottomettere […] ma la violenza settler-coloniale riduce la popolazione indigena al punto da arrivare a un dominio unicamente dei coloni. È così che siamo arrivati a Stati settler-coloniali come Canada, Australia e Stati Uniti, nazioni che ospitano molti studiosi che usano il termine per delegittimare Israele”.

Poi prosegue:

“Per gli Stati settler-coloniali di successo l’assimilazione e l’eliminazione hanno lavorato insieme […]. In un certo senso ciò che viene eliminato non è il corpo fisico della popolazione indigena ma la sua rivendicazione esclusiva”.

Secondo Degani la summa della mentalità legata al “settler-colonialism” la si può trovare in un verso del cantautore socialista americano Woody Guthrie: “This land is your land, this land is my land / […] This land was made for you and me”.

Chi giustifica Hamas in chiave anticoloniale, parte dall’assunto che Israele sia un po’ come l’Algeria, che i colonizzatori debbano essere cacciati, e va da sé che li si caccia con le cattive

Ora, vorrei tornare al paragone col Sudafrica. Come ho scritto sopra, trovo l’utilizzo della parola apartheid piuttosto azzeccata per descrivere l’Occupazione dei Territori palestinesi. Resta però un paradosso. I più accaniti tra i detrattori di Israele, quelli convinti che le azioni di Hamas siano giustificabili in quanto atto di decolonizzazione, si ostinano a usare questo termine, apartheid… ignorando che le loro posizioni negano di fatto le similitudini col Sudafrica. Come già detto, chi giustifica Hamas in chiave anticoloniale, parte dall’assunto che Israele sia più come l’Algeria, che i colonizzatori debbano essere cacciati, e va da sé che li si caccia con le cattive, seminando morte e terrore. Eppure, la lezione del Sudafrica non potrebbe essere più diversa. Lì si era di fronte a una popolazione di origine straniera, ma “nativizzata”, che opprimeva una popolazione indigena stricto sensu. Lì la decolonizzazione è passata dalla richiesta di diritti e di uguaglianza, anche attraverso la lotta armata, non dalla cacciata degli “invasori”, che invasori ormai non erano più. L’apartheid in Sudafrica è stata sconfitta, guarda un po’, abbattendo l’apartheid, non cacciando l’uomo bianco.

Trovo ridicolo, e anche un po’ triste, che alcuni di coloro che utilizzano il termine “apartheid” in continuazione, poi si mostrino quanto meno disinteressati ad abbattere l’apartheid in sé, come si è fatto in Sudafrica, perché per loro il nemico non è mica la diseguaglianza, è la presenza di un popolo che non dovrebbe stare lì, “a casa di qualcun altro”. Trovo ridicolo, e anche un po’ triste, che in un’epoca in cui la sinistra parrebbe avere recepito quanto sia odiosa e nativista l’idea di rimandare qualcuno “a casa sua”, ancora perduri il convincimento che si possa rispedire “a casa”, con violenza mostruosa, un popolo intero che una casa non ce l’ha.

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Israele-Hamas, l’ora più difficile

Maurizio Molinari – La Repubblica

GERUSALEMME – A tre settimane dall’attacco a sorpresa subito da Hamas, lo Stato ebraico si trova davanti ad uno dei momenti più difficili della sua esistenza. Il motivo è la sovrapposizione fra molteplici sfide, tutte con ben pochi precedenti. La prima e fondamentale riguarda la garanzia della propria sicurezza: la violenza medioevale di Hamas ha polverizzato una dottrina basata su prevenzione, intelligence ed alta tecnologia, riportando in prima fila il ruolo dell’esercito tradizionale che negli ultimi anni era stato ridimensionato. In secondo luogo, c’è la necessità di ricostruire la deterrenza di Israele rispetto ai vicini più minacciosi – non solo Hamas ma anche Hezbollah e Jihad islamica – ottenendo dei risultati sul campo in grado di allontanarli in maniera decisiva dai propri confini.

“Pensavamo di poter convivere con una tigre feroce davanti alla finestra, ma il Sabato Nero ci ha brutalmente ricordato che ciò espone a rischi drammatici” afferma Yuli Eldestein, capo della commissione Esteri e Sicurezza della Knesset. E come se non bastasse c’è anche l’incertezza sulle dimensioni del campo di battaglia: l’assedio da parte delle milizie filoiraniane presenti in Libano, Siria, Cisgiordania, Iraq, Gaza, Yemen e dallo stesso Iran espone ogni angolo di Israele al rischio di subire attacchi di qualsiasi tipo.

Da qui la situazione di “emergenza nazionale” che ha ben pochi precedenti da quando nel 1948, al momento di nascere, Israele si trovò ad affrontare con ben pochi mezzi l’invasione simultanea degli eserciti di sei nazioni arabe. Come se non bastasse, di mezzo c’è una crisi degli ostaggi con un numero tale – almeno 220 – da aprire una profonda ferita nella società israeliana, anche perché si sovrappone a racconti e testimonianze sui dettagli delle atrocità commesse da Hamas il 7 ottobre scorso che hanno risvegliato in milioni di cittadini gli incubi delle persecuzioni subite dagli ebrei nel corso della Storia. E ancora: a fronte della solidarietà arrivata dai governi di Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Germania, Italia e molte altre democrazie occidentali, gli israeliani si sentono feriti dalle proteste filo-Hamas negli atenei americani come nelle piazze di Londra, Parigi e Milano perché sembrano ignorare il dolore causato dalla morte violenta di oltre 1400 connazionali – molti dei quali mutilati, decapitati, bruciali e violentati – ed il ferimento di almeno altri 5400 a causa di un’operazione terroristica pianificata nei minimi dettagli dai jihadisti di Gaza al fine di uccidere il più alto numero di civili in maniere talmente brutali da far impallidire il ricordo delle stragi di Isis.

E non è ancora tutto perché “la resilienza sociale di Israele è indebolita a causa delle 40 settimane di proteste popolari contro la riforma della Giustizia del premier Benjamin Netanyahu – spiega l’accademico Manuel Trajtenberg – a cui ora si somma la sfiducia nella leadership di un capo politico che porta la responsabilità di aver subito il più grave attacco a sorpresa dalla guerra del Kippur del 1973”. Per non parlare dello scenario di una pace regionale con l’Arabia Saudita congelato dall’attacco di Hamas e di un orizzonte di convivenza con l’Autorità nazionale palestinese di Mahmoud Abbas (Abu Mazen) che, come assicura l’analista Yigal Karmon, “si potrà riprendere a considerare solo quando questa profonda ferita sarà rimarginata”.

C’è però anche un altro scenario ed a tratteggiarlo è David Meidan, l’ex negoziatore israeliano che trattò per cinque anni con i fondamentalisti di Gaza riuscendo ad ottenere nel 2011 la liberazione del soldato Gilad Shalit: innescare dall’eliminazione di Hamas una scossa tale per l’intera regione da far nascere “una nuova architettura di sicurezza”, basata sulla normalizzazione israelo-saudita e sulla formula dei “Due popoli per due Stati”, proprio come avvenne nel 1978 quando, appena cinque anni dopo la guerra del Kippur, Anwar Sadat e Menachem Begin siglarono a Camp David l’accordo di pace israelo-egiziano che resta il più strategico perno della stabilità in Medio Oriente.

Insomma, assediato dall’esterno, lacerato all’interno ed obbligato a ridefinire in fretta la strategia di sicurezza, Israele va incontro ad uno dei momenti più difficili dei propri 75 anni di esistenza, le cui conseguenze possono ridefinire gli equilibri dell’intera regione.

David Maidan e Manuel Trajitenberg

Il ferma-maniglia

Ognuno se lo costruisce in casa, come può. C’è chi usa un manico di scopa, altri preferiscono una trave di legno, altri ancora un ferro. Ciò che conta è che sia lungo quanto una porta del proprio appartamento e ad un’estremità abbia un foro per incastrarsi alla maniglia. Stiamo parlando del ferma-maniglia ovvero l’oggetto rudimentale di cui ogni famiglia israeliana sente di aver bisogno dopo il “Sabato Nero”.

Il ferma-maniglia serve per chiudere dall’interno il “mamad” – la stanza di sicurezza che ogni israeliano ha dovuto costruirsi in casa per proteggersi dai razzi – per trovare rifugio in caso di pericolo. Le testimonianze dei sopravvissuti al pogrom di Hamas sono inequivocabili sul “mamad”: quando i terroristi non sono riusciti a sfondarlo o a bruciarlo, i civili hanno avuto la possibilità di salvarsi. Da qui l’importanza di porte e finestre blindate ma soprattutto di un blocca-maniglia che renda impossibile forzarlo da fuori. Ci sono mariti e mogli che fanno a turno per verificare la capacità di chiudere in fretta il “mamad” “a prova di Hamas”.

Così come ci sono bambini che dal 7 ottobre vogliono dormire solo dentro il “mamad” – e non più nelle loro camerette – perché si sentono più protetti. Per i genitori è solo una delle conseguenze del pogrom avvenuto nelle comunità del Negev Occidentale: c’è chi non fa più uscire i figli da soli e chi ha ripensato in fretta orari di lavoro e tragitti urbani. La possibilità di incontrare un terrorista come quelli che hanno fatto strage di civili è diventata una feroce variabile della vita quotidiana. Se durante la Seconda Intifada il pericolo arrivava salendo su un autobus o entrando in un locale pubblico – perché i terroristi entravano in abiti civili, mischiandosi alla gente per farsi saltare in aria – e se negli anni Settanta gli israeliani impararono a temere i dirottamenti aerei o i pacchi abbandonati nelle strade, oggi le vite di milioni di persone si ridefiniscono con nuovi comportamenti quotidiani per proteggere la propria sicurezza dentro le pareti di casa. Perché Hamas ha dimostrato con la ferocia che intende raggiungere ovunque ed uccidere, mutilare e bruciare ogni singolo abitante di Israele, solo in quanto tale.

A svolgere un ruolo importante per coordinare la difesa del fronte interno è Yuli Edelstein, presidente della commissione Esteri e Sicurezza della Knesset, a cui spetta mettere a punto tutti i relativi interventi legislativi: dalla chiusura delle scuole alla sospensione delle rate dei mutui, dal versamento di una percentuale importante degli stipendi ai riservisti fino alle macro-misure per sostenere il sistema economico.

“È la prima volta nella nostra Storia recente che l’emergenza per un conflitto investe l’intero territorio nazionale, neanche un piccolo centro è escluso – spiega Edelstein, seduto nel suo ufficio a Gerusalemme – e questo significa che dobbiamo pianificare una miriade di attività”. Come, ad esempio, spostare oltre 150 mila cittadini dai villaggi lungo i confini con Gaza e Libano trovandogli alloggi ed accoglienza altrove nel Paese, incluse le tendopoli a fianco di Eilat. A sostenere Edelstein è l’esperienza maturata contro il Covid-19 quando era ministro della Salute: “Ci sono molti aspetti comuni con quanto avvenuto allora perché anche adesso è l’intero Paese a fermarsi e bisogna considerare ogni tipo di impatto sociale”.

Per avere un’idea di cosa intende basta osservare il via vai di automobili private nei centri di raccolta dove migliaia di cittadini arrivano per far arrivare ai soldati qualsiasi cosa possa servirgli: dai beni alimentari agli indumenti, ai caricatori cellulari. Una imponente catena umana, tutta a base volontaria, che si auto-gestisce – per telefono o con appositi siti web – ed ogni singolo giorno pensa a come sostenere gli oltre 360 mila riservisti richiamati per affiancare le truppe di leva così come le famiglie sfollate dal Sud e dal Nord del Paese.

Yuli Edelstein

Il nemico ibrido

L’attacco del Sabato Nero ha rivoluzionato l’idea di terrorismo da cui Israele deve proteggersi. Fino al giorno prima c’era un consenso, fra militari e intelligence, sul fatto che Hamas fosse un’organizzazione terroristica simile alle molte che Israele ha dovuto combattere nella sua storia – da Settembre Nero autore della strage di atleti alle Olimpiadi di Monaco nel 1972 all’Olp responsabile dell’attentato di Zion Square a Gerusalemme nel 1975, dall’assalto all’asilo del kibbutz di Maalot nel 1976 firmato dal Fronte per la liberazione della Palestina al massacro di Natanya nel marzo 2002 compiuto proprio da Hamas – con in più la caratteristica di dover amministrare dal 2007 la Striscia di Gaza e quindi le conseguenti responsabilità oggettive nei confronti di oltre due milioni di abitanti palestinesi.

“Si è trattato di un grave errore perché Hamas non è solo tutto ciò ma anche qualcosa di più” afferma Yigal Karmon, direttore del centro studi “Memri” sul Medio Oriente e unico analista ad aver previsto – in settembre – l’attacco del 7 ottobre. “Questo qualcosa in più è l’ideologia che muove Hamas, la stessa che ha generato Al Qaeda e Isis – spiega – e nasce dalla genesi del movimento dei Fratelli musulmani nella prima metà del Novecento” con l’obiettivo di fondere tutti gli Stati arabi per dare vita ad un grande Califfato. È un’ideologia che predica la Jihad, persegue la distruzione degli infedeli – ebrei e cristiani – e la sottomissione dei musulmani “corrotti” nonché la sottomissione del mondo intero ad una versione fondamentalista dell’Islam che “si propone di riportare il mondo intero a XV secoli fa”.

“L’errore di Israele è stato umano – sottolinea Karmon – perché ha creduto che con questa ideologia si potesse convivere”. A dispetto di una Costituzione di Hamas che prevede, in maniera esplicita, la distruzione di Israele e l’uccisione degli ebrei, ed ignorando ciò che l’intelligence israeliana ha continuato a raccogliere negli ultimi mesi: prove evidenti, concrete, su ciò che si stava preparando. Se però sono state “non considerate, ignorate, sottovalutate” aggiunge Karmon “è perché non solo il premier Benjamin Netanyahu ma anche i suoi predecessori e l’intero establishment della sicurezza, da anni, credeva nella politica di far leva sui fondi del Qatar per Hamas al fine di “pagare la pace””.

Proprio così: Israele si è fidata dell’Emiro Al-Thani del Qatar, in ragione dei legami fra Doha ed i Fratelli musulmani, ed ha consentito agli inviati qatarini di far arrivare, ogni mese, valige con milioni di dollari in contanti a Gaza. Hamas assicurava al Qatar, e dunque indirettamente ad Israele ed agli Stati Uniti, che quei soldi servivano ad amministrare la Striscia e a pagare gli stipendi dei dipendenti pubblici ma “la realtà era ben diversa perché ogni razzo, mitra, esplosivo, motocicletta, tunnel e arma di Hamas è stata pagata con quei fondi”.

Se dunque l’Iran è il più importante alleato militare di Hamas, la fonte di armi, intelligence e addestramento, “è invece il Qatar l’origine delle sue maggiori entrate economiche” sottolinea Karmon, aggiungendo che “l’errore strategico di Netanyahu e dell’apparato di sicurezza nazionale è stato credere alla tesi del Qatar che la pace poteva essere acquistata”.

Così come la Casa Bianca, prima con Donald Trump e poi con Joe Biden, si è fidata del Qatar come mediatore con i talebani afghani – venendo sorpresa dal blitz con cui si impossessarono di Kabul il 15 agosto 2021 – adesso è il turno di Israele a dover prendere atto che la mediazione qatarina con Hamas, ha consentito ai jihadisti di Gaza di avere le risorse necessarie per attaccarla. “Ciò non significa – precisa Karmon – che Doha sapesse in anticipo dei piani di Hamas ma pone un problema politico gigantesco sulla credibilità di Doha come garante dell’affidabilità dei gruppi jihadisti”.

A questo bisogna aggiungere che Hamas riceve, ogni mese, donazioni “caritatevoli” raccolte da una vasta rete di moschee e centri di cultura islamica controllati dai Fratelli musulmani – anzitutto negli Usa, in Gran Bretagna ed in Turchia – nel pieno rispetto delle leggi vigenti in questi Paesi. “È questo network di finanziamenti che sostiene imam e moschee che diffondono l’ideologia dei Fratelli musulmani, della Jihad Islamica, di Al Qaeda, di Isis e di Hamas” sottolinea Karmon, il cui obiettivo “non è politico di ottenere questo o quel risultato ma strategico, sottomettere il mondo alla Jihad”.

C’è questa radice ideologica del nemico alla genesi della difficoltà di combatterlo perché l’obiettivo di sottomettere con la violenza il mondo alla Jihad può rinnovarsi, da un secolo all’altro, da un Paese all’altro, anche solo con la diffusione di un testo, un video o l’audio di un sermone. A conferma della difficoltà della sfida contro questa ideologia, quando nel 2014 gli Stati Uniti hanno deciso di creare una coalizione internazionale – con la partecipazione di Paesi europei, mondo arabo, guerriglia curda, Iran e Russia – per sconfiggere Isis di Abu Bakr al-Baghdadi hanno avuto bisogno di ben quattro anni per smantellare lo Stato jihadista che era stato creato a cavallo dei confini fra Iraq e Siria.

Hamas, al pari di Isis, è dunque un nemico ibrido che somma al controllo militare di territori anche amministrazione, cibo, moschee e scuole coraniche per le popolazioni sottomesse. La brutalità dei suoi seguaci nasce da un’ideologia che recluta facendo leva su messaggi pseudo-religiosi disseminati grazie all’uso delle più moderne tecnologie, per finanziarsi come per diffondere la cultura della morte.

Un conflitto su tre livelli

Karmon studia la Jihad dal suo studio nel centro di Gerusalemme mentre poco lontano da Tel Aviv vive Jacob Amidror, in una casa dove ospita alcuni rifugiati da villaggi del Nord che sono stati completamente evacuati per proteggerli dal rischio di attacchi degli Hezbollah libanesi. Si tratta di un madre e due figlie. Amidror le ospitò già in occasione della guerra in Libano del 2006: sono passati 17 anni, la madre adesso ha i capelli grigi, le figlie sono cresciute ma dormono nelle stesse stanze che avevano allora.

“La storia per molti versi si ripete – dice Amidror, già consigliere per la sicurezza nazionale di Netanyahu e fra i più apprezzati analisti di strategia israeliani – ma questo conflitto è diverso dagli altri”. E mette l’accento su “diverso” per spiegare: “Si tratta di un conflitto che si sviluppa su tre livelli, il primo e più diretto, è la guerra iniziata da Hamas contro di noi con le atrocità contro i civili, perché ora Israele deve rispondere e cancellare Hamas, è il nostro popolo a chiedere questa risposta. C’è però un secondo livello ovvero la necessità di schiacciare Hamas per ricostruire la capacità di deterrenza israeliana contro simili nemici, a cominciare da Hezbollah in Libano, facendogli capire che ciò che capita ora a Hamas capiterà anche a loro se dovessero mai pensare di attaccarci in maniera simile. Infine, il terzo livello, perché lo scontro fra Hamas e Israele è un tassello del conflitto più ampio fra le democrazie ed i suoi nemici di cui il presidente americano Joe Biden ha parlato nel discorso alla nazione del 19 ottobre”.

Amidror conosce profondamente Israele ma anche in America si sente a casa. La sua lettura del conflitto iniziato da Hamas tiene assieme più necessità: Israele deve sconfiggere Hamas, impedire a Hezbollah di attaccarci ed aiutare l’America a confrontarsi con un asse di nemici che include l’Iran, fornitore di armi alla Russia di Vladimir Putin come nessun’altra nazione ad eccezione della Corea del Nord.

Si apre dunque un fronte parallelo a quello dell’Ucraina perché anche Kiev da una parte combatte per difendere la propria esistenza dall’aggressione russa e dall’altra fa parte dello schieramento delle democrazie occidentali alle prese con la minaccia della Russia, intenzionata a cambiare a suo vantaggio l’architettura di sicurezza, non solo europea.

“Qui in Medio Oriente, lo scontro fra democrazie e autocrazie dipenderà dalla nostra capacità di sconfiggere Hamas nella Striscia” sottolinea Amidror, secondo il quale la campagna israeliana sarà assai diversa da quanto finora abbiamo visto nei precedenti interventi di terra a Gaza – l’ultimo risale al 2014 – perché ora il fine è sradicare completamente l’organizzazione jihadista. “Per tentare di capire cosa potrà avvenire dobbiamo guardare al precedente del 2002, quando Israele intervenne nella West Bank e pose fine alla Seconda Intifada scatenata da Yasser Arafat dopo aver rifiutato a Camp David da Bill Clinton ed Ehud Barak la più ampia e seria offerta di far nascere uno Stato palestinese in Cisgiordania e Gaza”.

L’attacco di terra

Le parole di Amidror spiegano perché c’è una convergenza fra gli analisti militari in Israele sulla tipologia di intervento che l’esercito sta preparando a Gaza.

La sconfitta della Seconda Intifada avvenne infatti con un’operazione anche allora di terra che Ariel Sharon, allora premier, coordinò meticolosamente per eliminare le cellule più violente – soprattutto Hamas ma non solo – che bersagliavano le città israeliane con attentati e attacchi suicidi. “Si trattò di identificare ed eliminare tutti i gruppi terroristi in uno spazio urbano altamente popolato – ricostruisce Amidror – fu molto difficile e servirono quattro anni di tempo, ma i soldati caduti passarono da un numero molto alto nei primi due anni a molto meno in seguito, fino a diminuire in maniera decisiva”.

Ora Israele non ha quattro anni di tempo per liquidare Hamas, ma quando il premier Netanyahu parla di “tutto il tempo necessario” lascia intendere che non sarà una campagna breve. La richiesta ai civili di Gaza di spostarsi verso Sud lascia intendere che gli israeliani vogliono entrare da Nord, per crearvi la base da cui operare dentro Gaza City, dove ritengono si trovino la maggior parte delle infrastrutture militari di Hamas. “Avremo molto morti, sarà un’operazione difficile in presenza della popolazione civile, dobbiamo aspettarci giorni molto difficili” ammette Amidror, aggiungendo però che “c’è una grande coesione nel Paese sulla necessità di entrare e distruggere Hamas perché non possiamo vivere avendo accanto dei terroristi che operano come facevano i nazisti”.

Putin addio

In attesa delle operazioni di terra, possono esserci pochi dubbi che le conseguenze della guerra con Hamas stanno già ridefinendo la posizione di Israele fra Washington e Mosca. Se dall’inizio della guerra in Ucraina il governo Netanyahu aveva tentato di mantenere un difficile equilibrio fra Kiev e Mosca – inviando solo aiuti umanitari a Volodymir Zelensky e senza applicare le sanzioni al Cremlino – ora la scelta di Putin di schierarsi con Hamas è inequivocabile, polverizzando tutto il resto.

“Nell’ultimo anno vi sono stati ben 26 incontri pubblici fra esponenti del governo russo e di Hamas” osserva Yuli Edelstein – e dall’indomani del 7 ottobre Putin non ha mai condannato il pogrom contro di noi”. Il motivo è il legame a doppio filo fra Mosca e Teheran.

“L’Iran è cruciale per Putin a causa dell’invio di armi, a cominciare dai droni, che garantisce all’esercito russo in Ucraina – osserva Edelstein – e questa è una priorità strategica che fa passare in secondo piano il legame con Israele che il leader del Cremlino aveva spesso citato in pubblico, definendoci ad esempio l’unico Stato russofono fuori dai confini dell’ex Unione Sovietica”. La guerra in Medio Oriente giova d’altra parte tatticamente a Putin per distrarre l’America dalla campagna ucraina ed anche per fomentare divisioni interne nei Paesi dell’Occidente.

“Questo non significa che la Russia sia stata al corrente dei piani di Hamas contro di noi, ma le conseguenze sono inequivocabili – termina Edelstein, già fra i leader del movimento dei Refusnik, gli ebrei sovietici che si battevano per la libertà di emigrazione in Israele – Putin ha fatto una netta scelta di campo a favore dell’Iran”. Da qui l’attenzione di Gerusalemme per la volontà di Casa Bianca ed Eliseo di creare una “coalizione contro Hamas come già fatto contro Isis”. Non perché Israele abbia bisogno di aiuti militari sul terreno ma in quanto potrebbe generare un sostegno politico capace di sostenere lo Stato ebraico sulla scena internazionale una volta iniziato l’intervento.

Ostaggi, corsa contro il tempo

La sorte degli israeliani deportati da Hamas nella Striscia di Gaza si sovrappone all’incombere dell’operazione di terra. Per comprenderne il perché bisogna ascoltare David Meidan, l’ex alto funzionario del Mossad, nato in Egitto ed immigrato in Israele quando aveva un anno di età, che il 18 ottobre 2011 riuscì ad ottenere la liberazione del soldato Gilad Shalit da parte di Hamas dopo cinque anni di difficili trattative, in cambio del rilascio di 1027 detenuti e terroristi dalle carceri israeliane.

“Molti degli ostaggi presi da Hamas hanno una doppia cittadinanza e vi sono poi numerosi casi umanitari, c’è spazio per negoziare il rilascio di entrambi i gruppi in tempi stretti” spiega Meidan, sottolineando come l’amministrazione Biden sta esercitando una pressione molto forte sul Qatar affinché spinga i fondamentalisti della Striscia a liberarli. I motivi della trattativa sono molteplici e sotterranei. Da un lato c’è Doha, perché i qatarini hanno un problema di credibilità da riscattare in quanto sono stati loro negli ultimi dieci anni ad assicurare ad Occidente, Israele e mondo arabo che era possibile venire a patti con Hamas.

Se il premier qatarino, Mohammed al-Thani, è impegnato in prima persona ad ottenere il rilascio di ostaggi stranieri ed umanitari è perché ben consapevole della necessità di impedire che Doha ridiventi una nazione paria, sospettata di complicità con il terrorismo islamico, come già avvenuto fra il 2017 ed il 2021 quando fu Riad a guidare il Consiglio di Cooperazione del Golfo ad isolarla, imponendole dure sanzioni a causa del legame con i Fratelli musulmani. Ma c’è dell’altro perché, aggiunge Meidan “anche Hamas ha un problema da risolvere” dato dal fatto che “più Paesi arabi, dall’Egitto al Qatar, hanno visto nella brutale violenza contro i civili israeliani un comportamento che insulta i principi dell’Islam”.

È proprio la necessità per Hamas di far fronte a queste critiche – aspre ma mai pubbliche – ad aver spinto Khaled Mashaal, ex capo del Politburo, a liquidare in tv i rapimenti come eseguiti da “civili di Gaza”, fino alla liberazione dei primi quattro ostaggi – prima due israelo-americane, poi due anziane israeliane – al fine di provare un presunto atteggiamento “umanitario” dei jihadisti. La trattativa è però una corsa contro il tempo, perché l’inizio dell’intervento di terra incombe e Meidan ritiene che “per avere successo deve includere non solo gli stranieri ed israeliani con doppio passaporto ma anche tutti gli ostaggi umanitari” perché “fare una selezione escludendo i civili israeliani” riproporrebbe da parte di Hamas comportamenti analoghi a quelli delle selezioni eseguite dai nazisti “risultando inaccettabile alla nostra opinione pubblica”. Quando Meidan dice “casi umanitari” intende “anziani, donne e bambini” perché “vi sono bambini molto piccoli ed anche madri con figli” ovvero persone che non sarebbero in grado di sopravvivere in caso di guerra aperta.

Il funerale di Dana Bachar e di suo figlio Carmel, al cimitero di Gan Shlomo. Israele centrale, 24 ottobre 2023  – Foto AFP

Golda Meir o Chamberlain?

A Tel Aviv la piazza davanti al museo di Arte moderna è lo specchio della sovrapposizione fra le due ferite aperte di Israele. A prima vista ciò che domina la piazza è il lungo tavolo apparecchiato con le “Challot” – il pane del sabato – con 222 posti, quanti sono i rapiti da Hamas.

Le famiglie degli ostaggi vengono sulla piazza, sostano in un luogo a pochi metri di distanza e raccontano il loro dramma. E sulla stessa piazza i nomi dei rapiti sono stati aggiunti al monumento che ricorda la guerra del Kippur del 1973 – anche allora un attacco a sorpresa – raffigurando l’episodio biblico del Sacrificio di Isacco. Ma a ben vedere sul selciato biancastro c’è dell’altro. Scritte e volantini che raccontano le 40 settimane di protesta contro il premier Netanyahu e la sua riforma della Giustizia che hanno mobilitato, ogni sabato sera, decine di migliaia di persone.

Sulla parete esterna del museo un grande poster ricorda la Dichiarazione di indipendenza di Israele, letta da David Ben Gurion, proprio per sottolineare quei valori fondamentali della democrazia israeliana che i manifestanti rimproverano a Netanyahu di non rispettare. La sovrapposizione plastica, nello stesso spazio fisico, della lacerazione politica causata dalla riforma della Giustizia con la lacerazione emotiva provocata dalle atrocità di Hamas, spiega perché sulla figura del premier le divisioni restino profonde.

Se nei quindici giorni seguiti al “Sabato Nero” l’ostilità contro Netanyahu sembrava sopita, ora torna a manifestarsi con la voce di chi, come alcune delle persone che sostano sulla piazza, sostiene che “il responsabile della mancata difesa del Paese è lui ed ora non può guidarci contro Hamas”.

A spiegare questo bivio è Amos Gilad, ex generale, già stretto collaboratore del premier Itzhak Rabin ed una delle voci più presenti nelle proteste di piazza. “Molti parlano dello scenario delle dimissioni di Netanyahu a campagna militare finita, facendo il paragone con quanto fece Golda Meir dopo la guerra del Kippur – dice – ma io credo che sarebbe un grave errore, Netanyahu non è Golda Meir, a guerra finita cercherebbe di sopravvivere politicamente dando la colpa a qualcun altro e, poiché è lui il responsabile politico di quanto avvenuto, deve andarsene subito”.

Lo scenario di un premier che si dimette in Israele durante un conflitto in corso ha un unico precedente: Menachem Begin che, nel 1983, circa un anno dopo l’inizio della guerra in Libano, quando il numero dei caduti israeliani arrivò a superare i 500, andò nel suo ufficio e firmò le dimissioni, lasciando la guida del governo al compagno di Likud, Itzhak Shamir.

“Netanyahu non è Begin e non lo farà – aggiunge Gilad – ma la Storia ci consegna il precedente di Neville Chamberlain che, nella Gran Bretagna in guerra con la Germania nazista, dopo quasi un anno di errori ed umiliazioni si dimise assumendosi la responsabilità di tali fallimenti. Ed arrivò Winston Churchill”.

Questo significa che la discussione sulla responsabilità del fallimento nella difesa del Paese il 7 ottobre non aspetta la fine della campagna di Gaza: è già cominciata. C’è chi afferma, come Amidror, che “la responsabilità di aver creduto alla tesi del Qatar sulla possibilità di comprare la coesistenza con Hamas” sia “dell’intero sistema politico-militare” e dunque è un errore identificare nel premier il solo capro espiatorio, e chi invece come Gilad ritiene che “il Chamberlain d’Israele debba dimettersi subito per consentire al Paese di unirsi davvero”.

Attorno ai tavolini di un caffè di Ramat Aviv due ufficiali della riserva parlano fra loro, facendo capire quanto profonda è la lacerazione: “Netanyahu non ha mai voluto combattere guerre vere e proprie perché nei momenti decisivi esita sempre, per questo ha consentito agli ufficiali americani di essere coinvolti nella nostra pianificazione più segreta” afferma il più anziano, mentre l’altro ribatte “ora abbiamo un unico premier, dividersi su di lui sarebbe l’errore più grande, liquidiamo Hamas e poi torneremo a parlare di politica”.

Una nazione da ricostruire

Poco lontano dal Kanyon di Ramat Aviv ha sede l’Istituto nazionale di studi sulla sicurezza (Inss) guidato da Manuel Trajtenberg, l’economista già stretto collaboratore dei premier Ehud Olmert e Benjamin Netanyahu nonché ideatore nel 2006 del primo Consiglio economico per la sicurezza nazionale dello Stato ebraico. Ciò che distingue Trajtenberg è incrociare le conoscenze su economia e sicurezza per definire l’agenda delle priorità per il Paese. Davanti al Sabato Nero non esita a definire Israele “in uno stato di shock collettivo” perché il successo dell’attacco a sorpresa ha fatto venir meno “alcune certezze fondamentali” come “la solidità del sistema di sicurezza” e il “culto per l’alta tecnologia”. A cui bisogna aggiungere il venir meno della “resilienza sociale” dovuta alle proteste di strada contro la riforma della Giustizia.

“Israele è una nazione da ricostruire” afferma Trajtenberg, sottolineando che “si tratta di un momento di grande difficoltà” ma anche “con alcuni precedenti che dimostrano come queste transizioni appartengono al dna del Paese”. Il caso più evidente è il 1973 “quando l’attacco a sorpresa subito da Egitto e Siria portò a scuotere le coscienze tutti in maniera talmente profonda che nel 1977 per la prima volta il Likud arrivò, con Menachem Begin, alla guida politica del Paese” e “nel 1978 vi furono gli accordi di pace di Camp David con l’Egitto di Sadat”.

E ancora: “È stata l’iper-inflazione del 1985, quando si toccava il 500 per cento l’anno, a spingerci verso le riforme economiche che hanno generato la Start Up Nation dell’alta tecnologia” e nel 2002 la Seconda Intifada con i kamikaze che si facevano esplodere a raffica nelle città israeliane portò “a rendersi contro che l’Olp di Yasser Arafat non poteva essere un partner per la pace” aprendo il terreno al dialogo con le nazioni arabe del Medio Oriente che ha portato agli Accordi di Abramo del 2020 con Bahrein, Emirati Arabi Uniti, Marocco e Sudan.

“Nel dna di Israele c’è la capacità di affrontare le trasformazioni più inattese e profonde, uscendone più forti” assicura Trajtenberg, secondo il quale “adesso l’agenda da affrontare è costituita dai problemi che abbiamo scelto di non discutere troppo a lungo”.

Sono tre. Ecco di cosa si tratta. Primo: “Gli ortodossi saranno presto il 30 per cento della popolazione, c’è fra loro una nuova positiva tendenza all’integrazione, a cominciare dall’aumento di coloro che fanno il servizio militare, e bisogna spingerli a dare un maggiore contributo alla vita del Paese, senza nulla togliere al loro modo di vita, ma per farlo lo Stato deve diminuire i sussidi pubblici alle scuole religiose perché li spingono a isolarsi”.

Secondo: “Gli arabo-israeliani sono oltre il 20 cento della popolazione, al loro interno il tasso di criminalità è molto alto, dobbiamo investire per migliorare la loro qualità di vita, di studio, affinché la violenza scenda e l’educazione aumenti”.

Terzo: “I palestinesi sono i nostri vicini, parlare ora di convivenza sembra impossibile dopo quanto avvenuto con Hamas perché il livello di fiducia nei confronti di Gaza e della West Bank non è mai stato così basso, ma ciò non toglie che la maggioranza di chi risiede fra Gaza e Ramallah non vuole la guerra con noi” e dunque “serve una nuova generazione di leader israeliani capaci di dialogare con una nuova generazione di leader palestinesi” ovvero coloro che verranno dopo Mahmud Abbas.

Trajtenberg non si nasconde che si tratta di “argomenti ora quasi impossibili da affrontare per chiunque” ma vede nella volontà degli israeliani di battersi sulla riforma della Giustizia – tanto quelli contrari che i favorevoli – la possibile genesi di una “rottura positiva rispetto al presente”. “Vincendo questa sfida – assicura – Israele ne uscirà più forte e coesa”.

Il fatto che proprio il cuore del movimento anti-Netanyahu oggi sia impegnato a sostenere ovunque la mobilitazione delle truppe contro Hamas “testimonia che qualcosa sta avvenendo nelle viscere del Paese”. E gli occhi sono su quei leader emergenti nell’economia, della “Start Up Nation”, che si sono imposti durante le manifestazioni anti-riforma: dal venture capitalist Eyal Waldman – la cui figlia Danielle con il fidanzato è stata assassinata al rave party del Nova Festival – a Moshe Redman, volto di spicco dell’hi-tech. “Proprio come avvenuto in Italia dopo Tangentopoli, quando a cadere furono Craxi ed Andreotti e ad emergere furono Berlusconi e Prodi – afferma David Meidan – credo che anche in Israele la nuova generazione di leader verrà dal mondo dell’economia”.

C’è però anche un’altra Israele che bussa alle porte: “Nelle unità speciali dell’esercito i sionisti religiosi sono la maggioranza mentre alla mia epoca eravamo pochissimi ed a prevalere erano i laici – dice il generale Amidror – questo significa un cambiamento importante nelle viscere della nazione, con la mobilitazione di nuove energie capaci di generare leadership”.

Occhi puntati su Ramallah

Quando i leader israeliani, politici e militari, affermano che non è loro intenzione occupare la Striscia di Gaza dopo l’eliminazione di Hamas, pongono la questione di chi la governerà a guerra finita.

L’Onu è già presente con scuole e centri medici gestiti dall’Agenzia Unrwa e ciò significa che il suo personale – magari rafforzato o affidato a nuove forme di intervento – potrebbe svolgere un compito di assistenza umanitaria nel breve termine agli oltre 2,3 milioni di residenti civili. Ma resta la questione del governo nel medio-lungo termine ovvero la gestione dell’amministrazione pubblica che dopo il ritiro unilaterale di Israele nel 2005 passò all’Autorità nazionale palestinese e dopo il colpo di mano del 2007 venne presa con la forza da Hamas.

“La soluzione più logica può essere quella di restituire il governo della Striscia all’Autorità palestinese” afferma Yigal Karmon. Ma questo scenario porta con sé l’interrogativo su chi può essere in grado di governare Ramallah con credibilità politica ed energia personale tali da riprendere il controllo della Striscia e, di conseguenza, riprendere il negoziato con Israele per arrivare ad una definitiva composizione del conflitto.

Al momento alla Muqata siede – dal 2015 – il presidente Mahmud Abbas e David Meidan sottolinea che “a dispetto dell’età e di una salute a volte considerata precaria, fino a quando resta lui, dobbiamo negoziare con lui”. Tantopiù che Abbas, pur protagonista di serie crisi con Israele e autore in settembre di dichiarazioni incendiarie come quelle sulla Shoà (“Hitler ha combattuto gli ebrei per il loro ruolo sociale e non per la loro fede”), non ha fatto venire meno la cooperazione nella lotta al terrorismo e per mantenere la sicurezza nella West Bank.

Le parole pronunciate da Abbas dopo il pogrom del 7 ottobre sul fatto che “Hamas non rappresenta la causa palestinese” avvalorano il suo ruolo di leader di un nazionalismo che resta basato sul Fatah, un movimento laico, ostile al fondamentalismo religioso di Hamas. Ma Abbas è anche alla guida di un sistema di potere gestito da famigliari e stretti collaboratori imputato – da anni – di corruzione endemica a scapito dello sviluppo della West Bank. Sono queste accuse, molto diffuse nelle città palestinesi, che lo rendono poco credibile, vulnerabile, politicamente instabile. Da qui la costante attenzione di Israele, Stati Uniti ed Europa su possibili alternative.

I nomi più popolari che circolano nella West Bank sono due: Mohammed Dahlan e Marwan Barghouti. Dahlan è nato a Gaza, ha guidato Fatah nella Striscia e vive negli Emirati, dove gestisce affari economici di grande successo con l’evidente sostegno di Abu Dhabi: potrebbe essere l’uomo giusto per unificare i palestinesi con il sostegno del Paese arabo in questo momento al centro della normalizzazione dei rapporti con Israele.

Ma “Dahlan non scalda i cuori dei palestinesi – aggiunge Karmon – a differenza di quanto avviene per Marwan Barghouti”. La popolarità di Barghouti nasce dal fatto di essere stato uno dei leader della Prima ed anche della Seconda Intifada, quando furono proprio i suoi “Tanzim” a compiere alcuni dei più sanguinosi attentati contro Israele. Per questo Barghouti sconta nelle carceri israeliane ben cinque ergastoli e incarna la figura di uno dei nemici più feroci dello Stato ebraico.

“Scarcerarlo per il nostro governo – osserva Manuel Trajtenberg – significherebbe tentare di ripetere l’operazione Nelson Mandela in Sudafrica ovvero puntare sulla sua popolarità per favorire una vera, profonda riconciliazione”. Sulla carta è uno degli scenari possibili ma Karmon mette le mani avanti: “Dopo quanto avvenuto il 7 ottobre nessun israeliano sano di mente accetterà mai uno Stato palestinese indipendente in Cisgiordania, temendo che possa trasformarsi in un’altra Gaza, che ci attaccherebbe senza interruzione”.

Per il fondatore di Memri, “nel breve periodo l’unica soluzione possibile è quella a cui pensò anni fa Yitzhak Rabin, assegnando alla West Bank e magari anche a Gaza, una completa autonomia ma senza armi e soprattutto del tutto staccata da noi, con una barriera ancora più consistente di quella che fece costruire Ariel Sharon al termine della Seconda Intifada”. Le immagini che abbiamo visto in questi giorni in più località della Cisgiordania, con abitanti degli insediamenti ebraici che abbattono i grandi cartelli rossi ai confini con le aree controllate dall’Autorità palestinese danno la temperatura di quanto sta avvenendo in Giudea e Samaria – i nomi ebraici della West Bank – dove la popolazione israeliana non sembra più intenzionata a rispettare i confini stabiliti dagli accordi di Oslo nel timore di subire attacchi come quelli che hanno insanguinato il Negev Occidentale. Anche perché in alcuni centri, come Hebron, il fondamentalismo è molto radicato mentre Jenin è divenuta nell’ultimo anno l’epicentro delle attività di nuovi gruppi violenti, protagonisti di attentati anti-israeliani.

La sfida sulla narrativa

C’è infine un fronte di sfida fra Israele e Hamas che ha a che vedere con la narrazione di quanto avvenuto il 7 ottobre. Gli abitanti dello Stato ebraico hanno vissuto l’eccidio di civili e le atrocità compiute dai jihadisti come una ripetizione delle più brutali persecuzioni del passato. Come riassume David Meidan: “È come se avessimo scoperto centinaia di Anne Frank” per la moltitudine di civili che sono stati obbligati a rifugiarsi in casa propria nella speranza di sfuggire alla caccia all’ebreo messa in atto dai jihadisti con mappe, liste di nomi ed istruzioni precise tese a massimizzare la strage di civili.

Hamas invece, nelle parole di Khaled Mashaal, ex capo del comitato centrale ora in Qatar, ribatte che “non è affatto vero che abbiamo ucciso dei civili”: si tratta di “propaganda sionista” tesa a far dimenticare “i crimini commessi contro la popolazione di Gaza con l’assedio economico e con i bombardamenti aerei”.

Per avvalorare questa versione il ministero della Sanità di Gaza, controllato come tutta l’amministrazione locale da Hamas, si è affrettato ad imputare ad Israele la bomba esplosa sull’ospedale battista di Al-Hali lo scorso 17 ottobre, “provocando 500 morti”. In realtà prima i portavoce militari israeliani, poi alcuni fra i maggiori quotidiani internazionali – dal “Wall Street Journal” al “New York Times” – hanno dimostrato con abbondanza di documenti che ad essere esploso sull’ospedale è stato uno dei razzi difettosi lanciati dalla Jihad islamica palestinese verso Israele: poco dopo il lancio è caduto dentro la Striscia, come avviene nel caso di un quinto degli ordigni.

Pur smentita, la notizia della “strage israeliana a Gaza” ha consentito a Hamas in più Paesi occidentali – dagli Stati Uniti alla Francia fino all’Italia – di oscurare il pogrom del 7 ottobre con le accuse di “crimini contro l’umanità” commessi da Israele. Una motivazione che si ritrova nelle manifestazioni pro-Hamas avvenute, in Europa come negli Stati Uniti, segnate da un’aggressività crescente contro gli ebrei: a Viale Padova, Milano, gridando a squarciagola “Togliete i confini, uccideremo gli ebrei” così come nella “Cooper Union” di New York City, dove una folla di facinorosi pro-Hamas ha assediato nella libreria gli studenti ebrei, minacciando di sfondare le porte per aggredirli. È l’aggressività contro gli ebrei in genere a ribadire la sovrapposizione fra antisionismo ed antisemitismo, evidenziando i pericoli che vengono dalla banalizzazione del pogrom di Hamas. Ma, nonostante ciò, la narrazione dei jihadisti sul 7 ottobre appare consolidata, facendo leva su gruppi organizzati, pubblicazioni web e manifestazioni in Nordamerica ed Europa contro i “crimini di Israele”. Cancellando con un colpo di spugna le “centinaia di Anne Frank” frutto del pogrom nei villaggi civili del Negev.

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Se gli oppressi diventano oppressori

di Antonio Scurati

33 gruppi di studenti di Harvard hanno pubblicato una lettera nella quale dichiarano di considerare “il regime di Israele responsabile di tutte le violenze causate da vent’anni di apartheid a Gaza”

Talvolta gli oppressi divengono oppressori. Non mi riferisco qui ai figli delle vittime della Shoah che opprimono il popolo palestinese. Mi riferisco, invece, ai figli del privilegio americano che odiano attivamente i cittadini di Israele.

I fatti. La settimana scorsa ben 33 gruppi di studenti di Harvard pubblicano una lettera aperta nella quale dichiarano di considerare “il regime di Israele totalmente responsabile di tutte le violenze causate da vent’anni di apartheid a Gaza”. Stando a questi studenti della più prestigiosa università del mondo, i massacri di Hamas sarebbero responsabilità dei massacrati e non dei massacratori.

Si tratta dello stesso argomento usato da Adolf Hitler al principio del 1942 per giustificare l’imminente sterminio degli ebrei d’Europa da lui deciso. Esagero? Non esagero: “Il giudaismo trama una guerra mondiale internazionale per annientare, diciamo, i popoli ariani, mentre non saranno i popoli ariani che saranno annientati, ma il giudaismo“. Questo il concetto espresso da Hitler durante il suo discorso allo sportpalast di Berlino del 30 gennaio 1942; e questa la precisazione fornita a Goebbels in una conversazione privata nel febbraio dello stesso anno: “È inammissibile qualsiasi sentimentalismo, in questo caso. I giudei si sono meritati la catastrofe che vivono oggi. Così come vengono annientati i nostri nemici, anch’essi andranno incontro al proprio annientamento“.

Ebbene, di fronte a quest’aberrazione, per due giorni il vertice dell’ateneo tace. Poi, soltanto il terzo giorno, dopo proteste di insigni ex studenti e minacce da parte di ricchi donatori di interrompere i finanziamenti, la presidente di Harvard, Claudine Gay, prende timidamente le distanze tenendo, però, una posizione cautamente neutrale. E si tenga presente che ciò accade nel contesto di una crescente diffusione di comportamenti manifestamente ostili, e talvolta discriminatori, da parte degli attivisti universitari statunitensi nei confronti dei loro colleghi ebrei.

Com’è possibile? È possibile perché da anni negli Stati Uniti e altrove gli attivisti di movimenti per la liberazione degli oppressi usano aggressivamente tecniche di boicottaggio e di stigmatizzazione. Sulle loro piattaforme social attaccano violentemente chiunque dissenta dalle loro posizioni gettando su di lui un marchio d’infamia in modo da declassarlo a un livello inferiore. Insomma, lo strumento dello stigma, usato per millenni dalle società tradizionali per identificare, degradare ed emarginare i soggetti cosiddetti “devianti”, viene ora sistematicamente usato dai paladini dei discriminati per discriminare a loro volta.

È un fenomeno molto più vasto dell’attivismo anti-israeliano. L’antisemitismo mascherato da antisionismo — cartina di tornasole di ogni falsa coscienza occidentale — di parte della élite studentesca statunitense rivela la natura aggressiva, illiberale e oscurantista della sinistra radicale movimentista americana. Da un decennio, oramai, nelle università statunitensi frange estremiste impediscono ai docenti di letteratura di insegnare letteratura (i grandi autori del canone occidentale sono banditi in quanto fautori della supremazia bianca, compresa Margaret Atwood, rea di femminismo tradizionale); conculcano il pluralismo e la libertà d’espressione in nome di quella stessa libertà, ostracizzano l’intero passato — impedendone la comprensione — per conto di un presente arbitrario e assoluto (la cosiddetta cancel culture); mettono in permanente e inappellabile stato d’accusa intere categorie di persone, a prescindere dalle loro responsabilità individuali, in nome dei diritti della persona (soprattutto i maschi caucasici adulti ma anche le donne che vogliano perseverare nel pensarsi e definirsi come tali e, come abbiamo visto, all’occorrenza, anche gli ebrei); disconoscono i diritti della maggioranza in nome della difesa di quelli delle minoranze. Fanno, insomma, il deserto e la chiamano cultura.

C’è un’aria di famiglia in questi paladini degli oppressi pronti a trasformarsi in oppressori. L’accecamento ideologico, il rifiuto sdegnoso dell’universalismo illuminista, il complottismo compulsivo, l’elitarismo mascherato da avanguardismo, l’autoproclamata superiorità morale, il perenne sindacato a difesa di sé stessi, il bisogno insopprimibile di sentirsi antagonisti del sistema, il desiderio sfrenato di un nemico da odiare. Sono tutte cose che abbiamo già visto e già sentito. Non vi suonano famigliari? Non vi ricordano il fanatismo settario delle sedicenti avanguardie della rivoluzione comunista mondiale quando negli anni sanguinosi della lotta di classe affermavano che in certi momenti della storia le ragioni del proletariato devono prevalere su quelle dell’umanità?

Nel mondo culturale accade oggi qualcosa di analogo. Attivisti aggressivi illiberali, che si ergono ad avanguardia intellettuale di una presunta rivoluzione politica, antropologica e sociale, pretendono di trasformare le ragioni di sacrosante lotte minoritarie nel torto di imporre alla maggioranza una ridefinizione integrale del suo modo di parlare, di pensare, di amare e di vivere. Di fronte a queste minoranze rissose, la maggioranza, spaventata, si fa silenziosa. E anche questo lo abbiamo già visto.

Mi è capitato centinaia di volte di raccogliere in privato sfoghi di intellettuali di sinistra esasperati da istanze estremiste propagandante come del tutto ovvie dai rappresentanti più radicali della ideologia gender o della cancel culture. Critiche che non diventano mai pubbliche per paura dello stigma.

E non è solo un tema che riguardi gli Stati Uniti o piccole cerchie intellettuali. L’intera nostra atmosfera culturale inizia ad essere opprimente. Su troppe questioni vitali la scena si va sempre più polarizzando agli estremi, dominata dagli attivisti di una sinistra militante e minoritaria, apparentemente contrapposti ma in verità funzionali alla reazione di estrema destra. È giunto il tempo che nel campo culturale la maggioranza silenziosa torni a parlare.

Antonio Scurati

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Israele, tra il dolore e la guerra

di Maurizio Molinari

l reportage. Il pogrom del 7 ottobre perpetrato da Hamas ha risvegliato gli incubi del passato. Stretto nella morsa dell’Iran, il Paese intero prepara la risposta. Per sopravvivere

GERUSALEMME – A due settimane dal pogrom del 7 ottobre, Israele affronta la sua ora più difficile. Le atrocità di Hamas hanno risvegliato i fantasmi della Shoah, l’attacco a sorpresa ha svelato la vulnerabilità delle difese militari, gli oltre duecento ostaggi detenuti a Gaza lacerano il Paese e lo scenario di un conflitto su più fronti con i gruppi armati creati da Teheran — non solo Hamas e Jihad Islamica nella Striscia ed in Cisgiordania ma anche Hezbollah libanesi, Houti yemeniti, milizie sciite in Iraq e Siria — espone tutti gli oltre nove milioni di abitanti al rischio di trovarsi in prima linea. Anche per una nazione abituata da oltre 75 anni a battersi contro vicini che vogliono cancellarla dalla mappa geografica, è una miscela di rischi e incognite che ha ben pochi precedenti.

Tutto inizia con il risveglio da parte di Hamas dei fantasmi della Shoah e per capire cosa significa per Israele bisogna ascoltare la ricostruzione di quanto avvenuto durante il pogrom jihadista dalle voci degli scampati. Perach Filo, sopravvissuta all’Olocausto, era sola in casa nel kibbutz di Be’eri quando sono arrivati i terroristi. Si è chiusa nel mamad — la stanza di sicurezza che ogni casa possiede — con mezzo litro d’acqua, mezzo filone di pane ed una coperta. È rimasta lì per quasi due giorni, gestendo da sola il poco cibo che aveva, facendo i propri bisogni e restando in assoluto silenzio mentre ascoltava i jihadisti che le distruggevano la casa e sparavano contro la porta blindata del mamad tentando di sfondarla.

«Ero chiusa lì dentro e ringraziavo in continuazione Dio per quel mezzo litro di acqua, quel poco pane e quella coperta che avevo portato con me perché mi hanno consentito di andare avanti», racconta, evocando in chiunque la ascolti i ricordi di chi ha subito le persecuzioni naziste. Di chi sa che anche una sola fetta di pane può consentire di sopravvivere. E dai manuali della sopravvivenza ebraica esce anche quanto avvenuto quando Perach Filo ha sentito che i jihadisti si erano allontanati: si è calata da sola dalla finestra del mamad, ha acceso una piccola vettura e da sola ha raggiunto i militari israeliani che fuori dal kibbutz stavano combattendo.

Voci dal pogrom


Be’eri sono stati commessi alcuni dei crimini più orrendi. È qui che sono stati trovati corpi di bambini bruciati. Fra i primi ad averli visti c’è un responsabile di Zaka, l’associazione che recupera i resti, anche i più piccoli, di ogni singolo essere umano, per potergli dare sepoltura. Quando tenta di descrivere ciò che ha esaminato, allarga le braccia, non riesce a trovare le parole, gli si chiude la gola, ammette di non essersi mai trovato davanti a qualcosa del genere.

Ariel Zohar ha 13 anni, è di Nir Oz ed ha avuto l’intera famiglia sterminata. Si salvato perché di primo mattino — l’attacco è iniziato poco dopo le 6 — era andato a correre. Come chi si salvò dalla razzia degli ebrei di Roma del 16 ottobre 1943 — anche quello era un sabato — solo perché era uscito per comprare le sigarette. Zohar fra una settimana farà il suo bar-mitzwà — la maggiorità religiosa — con al fianco l’unico parente che gli è rimasto, il nonno scampato alla Shoah. Quando la Storia si fonde.

Orrore a Nir Oz

Nir Oz è uno dei quattro kibbutzim più devastati, assieme a Kfar AzaBe’eri Nahal Oz, fra le 22 località israeliane dove Hamas ha fatto oltre 1.200 morti, 2.500 feriti e catturato almeno 210 ostaggi. Ma Nir Oz, più isolato rispetto agli altri, ha una particolarità: è l’unico dove Hamas non ha incontrato resistenza, i suoi uomini armati sono entrati ed hanno potuto fare ciò che volevano, senza fretta né ostacoli, facendo strage e poi tornando tranquillamente a Gaza. Visitarlo oggi consente di comprendere il metodo di operare che hanno seguito: prima uccidere tutti i civili che erano a portata di fuoco, poi bruciare le case dove c’era ancora chi si era rifugiato nei mamad. Hanno bruciato qualsiasi luogo dove ritenevano vi fosse una vita umana, casa per casa. Anche l’asilo. Almeno un terzo dei 350 residenti di Nir Oz è stato ucciso, carbonizzato o deportato a Gaza. Uomini, donne, anziani e bambini.

L’efferata precisione con cui Hamas ha operato a Nir Oz, bruciando le persone vive nelle proprie case, evoca gli Einsatzgruppen — le truppe speciali delle SS — impiegate dai nazisti in Europa Orientale per uccidere, ovunque li trovassero, il più alto numero di ebrei nel tempo più rapido, prima dell’inizio della fase industriale dello sterminio con i forni crematori. I manuali di Hamas trovati dai militari di Tzahal indosso ad alcuni terroristi — datati ottobre 2020, lasciando intendere i tempi della pianificazione — provano che la scelta dell’uccisione di ogni singolo civile, in qualsiasi modo possibile, era l’obiettivo fondamentale dell’intera operazione. Catapultando nel cuore del XXI secolo il metodo della caccia all’ebreo, le cui prime testimonianze risalgono alla notte della Storia: quando nell’Antica Persia il malefico Aman pianificò la distruzione di tutti gli ebrei o quando nel Medioevo i soldati della Prima Crociata devastarono i villaggi ebraici in Renania.

La lista di Halil

E poi c’è il racconto della signora Tasa di Nativ Ha-Asarà, neanche 45 anni, che ha perso il marito e un figlio. Ecco cosa dice: «I terroristi sono arrivati a colpo sicuro, avevano in tasca una mappa delle case con la lista dettagliata delle nostre famiglie che vi abitavano, sapevano quanti figli c’erano in ogni abitazione ed anche chi aveva animali domestici». La sovrapposizione con le SS che bussavano alle porte con le liste delle persone da portare via non deve neanche essere fatta: è nelle menti di chiunque ascolta. E la signora Tasa va avanti: «L’unica persona che può avergli dato informazioni così dettagliate è Halil, il giovane arabo di Gaza che per anni è vissuto con noi, curando giardini, pitturando le pareti e riparando ogni cosa, era diventato uno di noi, lo consideravamo un uomo di pace, il nostro legame con Gaza. Invece Halil gli ha dato i nostri indirizzi e nomi». Come i collaborazionisti che in tanti Paesi europei tradirono senza alcuna remora vicini di casa, amici di scuola e conoscenti ebrei, consegnandoli ai nazifascisti, e voltandosi dall’altra parte.

Sono storie che entrano dentro le viscere di chiunque in Israele, sovrappongono le atrocità di Hamas a quelle dei persecutori del passato, fanno percepire a giovani e giovanissimi che quanto commesso dai nazisti ai loro nonni si è ripetuto ora. Per un popolo abituato a vivere la Storia come un unico evento immanente — ricordando ogni anno l’Uscita dall’Egitto come se fosse avvenuta oggi — significa il risveglio degli incubi più orribili. Scoprendo che la Notte dei Cristalli, i pogrom zaristi e la caccia agli ebrei si sono ripetute nel 2023. Dimostrando la sovrapposizione fra antisionismo ed antisemitismo. Certo, la storia dell’odio antiebraico insegna che ogni antisemita impara, ripete ed aggiorna le tattiche del predecessore, anche a distanza di secoli, ma nessuno finora osava pensare che perfino gli aguzzini di Adolf Hitler potessero avere degli emulatori nell’era del web e dell’iphone.

E non è tutto perché le immagini girate dalle telecamere di sicurezza dei villaggi devastati mostrano i saccheggi, da parte dei civili di Gaza mischiati ai terroristi: bambini che rubano le biciclette, uomini che svaligiano case, prendono televisori, rubano carte di credito dai corpi morti, catturano ostaggi personali. Come se fossero al supermercato. In un fotogramma di Be’eri si vede un anziano in jalabiya che esce da un’auto di Hamas, zoppica, aiutandosi con il bastone, ma procede con passo veloce, per seguire i terroristi dentro il kibbutz. Sono immagini di pogrom perché nella Russia zarista come a Baghdad nel 1941 o a Tripoli nel 1945 la gente comune si mischiava ai gendarmi armati, gettandosi contro gli ebrei non solo per scannarli ma anche per depredarli di tutto. Ecco perché, che si tratti di ebrei di origine europea o araba, ashkenaziti o sefarditi, le testimonianze del 7 ottobre devastano il cuore di ogni israeliano.

Eroi improvvisati

Ad evocare il passato ci sono anche i racconti di singoli atti di eroismo da parte di chi si è opposto al pogrom, agendo d’istinto durante le lunghe ore di assenza dell’esercito preso di sorpresa. Come Shifka, una poliziotta madre di dieci figli, che appena saputo del massacro in corso al Rave Party è salita sull’auto e si è diretta a Nova ingaggiando — con altri tre agenti — un combattimento durato 13 ore. Finito il quale, hanno tirato fuori dalle pile di giovani uccisi quelli che ancora respiravano. Oppure Tali Haddad, madre di un giovane ferito sempre a Nova che, corsa in suo aiuto, con la propria auto ha salvato 12 vite. O il soldato beduino che, dentro una base sopraffatta, si toglie la divisa, resta in maglietta bianca, imbraccia un fucile e grida in arabo ai terroristi di andare verso di lui, fingendosi uno di loro, e quando gli sono vicinissimi gli spara a bruciapelo, uccidendoli. Il racconto della scelta dei singoli di agire solo con le proprie forze davanti al Male è un altro tassello della strage, completa ed integra le testimonianze delle vittime.

Il brutale risveglio

È questo il racconto che ha generato la scossa collettiva, risvegliando Israele sul pericolo della distruzione di un Paese che si era oramai abituato a considerarsi una “Start Up Nation”, protagonista delle innovazioni del XXI secolo. Gli israeliani si sentivano proiettati verso le nuove mete della conoscenza globale ma hanno scoperto che devono ancora battersi con tutte le forze per guadagnare il più primordiale dei diritti: quello all’esistenza. Da qui la sensazione di essere in bilico, che questa nazione torna a percepire, proprio come avvenne nel 1948 o nel 1967.

All’epoca della Dichiarazione di Indipendenza, infatti, David Ben Gurion leggendola si impose su molte resistenze interne, da parte di chi riteneva che gli ebrei erano troppo pochi e troppo male armati: sarebbero stati travolti facilmente dagli assai più potenti eserciti arabi, non c’era speranza di farcela. E nelle settimane precedenti alla guerra del 1967 Levi Eshkol, allora premier, fece scavare le fosse comuni dimostrando di prendere assai sul serio le minacce quotidiane dell’Egitto di Gamal Abdel Nasser di travolgere il giovane Stato, sterminarne gli abitanti e gettare a mare i pochi che sarebbero sopravvissuti. Più volte, nella sua breve Storia, Israele si è trovato davanti a sfide senza precedenti, talmente imponenti da poterlo sopraffare. Come fu anche l’attacco a sorpresa di Egitto e Siria nella Guerra del Kippur del 1973, quando l’esercito di Anwar Sadat sciolse con potenti getti d’acqua i bunker costruiti nella sabbia dal generale Bar Lev lungo il Canale di Suez e i tank di Hafez Assad dilagarono sulle Alture del Golan, arrivando alle soglie di Tiberiade. Quanto sta avvenendo in questi giorni ha molte analogie con questo passato.

Vivere sottovoce

Israele teme il peggio e torna, d’istinto, a comportarsi come avveniva nei primi decenni di esistenza, quando lo stato d’emergenza era quotidiano. Ecco perché il Paese vive sottovoce. A Machanè Yehuda, il mercato popolare della Gerusalemme ebraica, i venditori ci sono e le botteghe sono aperte ma non si grida più per attirare gli acquirenti. A Rechov Yafo, la strada principale, prevale il vuoto e nei negozi aperti, coperti di bandiere, le uniche musiche che si ascoltano sono canzoni che evocano l’origine del Paese, come “Erev Shel Shoshanim”, la sera delle rose che Yafa Yarkoni cantò nel 1957. I ristoranti più cari e per turisti sono in gran parte chiusi mentre restano aperti i locali più piccoli, a volte angusti, come “Rahmo” a Machanè Yehuda e “Pinati” su King George Street: pochi tavoli e tovaglie di carta, dove operai e famiglie vengono da sempre per mangiare con pochi sheqel, humus caldo con falafel o con carne.

Ascoltando Kol Israel, la radio che ogni ora aggiorna su tutto. Il traffico è scomparso e con lui l’assordante suono dei clacson. Le strade di Gerusalemme che fino a due settimane fa sembravano diventate troppo strette per una città con 800 mila anime, adesso tornano ad essere troppo grandi per i pochi veicoli che vi transitano.

Il motivo è che una buona parte della popolazione, qui come ovunque, è sotto le armi. Sono rimasti in città solo i più giovani, gli anziani, i funzionari necessari per tenere aperti uffici pubblici e trasporti, uomini o donne non più in età per essere richiamati. La parte più produttiva, vitale, creativa, d’Israele semplicemente non si vede più: è altrove a preparare la difesa più difficile e imprevista. I più anziani ricordano che fu così anche prima del 1967 — quando le ostilità arrivarono dopo tre settimane di assedio dei Paesi arabi — e dopo l’attacco a sorpresa del 1973. Tutti sanno cosa sta avvenendo perché ogni famiglia ha qualcuno sotto le armi: padri, madri, figli e figlie, nipoti.

E come avveniva negli anni Sessanta e Settanta, l’unica cosa nota è se i propri cari in divisa sono “al Nord”, “al Centro” o “al Sud”, i tre fronti da presidiare. Shalom, con un figlio e tre nipoti — due maschi ed una femmina — richiamati, lo spiega così: «Ci hanno detto in che area sono, non cosa stanno facendo, quello che rischia di più è mio nipote al Sud». Quando dice «al Sud» gli occhi diventano rossi. Shalom ha 83 anni, ha visto tutte le guerre e in molte ha combattuto, è un insegnante, appartiene alla vecchia generazione laburista, non ama il premier Netanyahu né il Likud ma dice «ora dobbiamo eliminare questi barbari, poi torneremo ad occuparci di politica». A pensarla come lui è Harel Wiesel, il proprietario della rete di grande distribuzione “Fox”, uno dei businessmen più in vista del Paese, indomita voce di spicco del movimento di protesta contro la riforma della Giustizia proposta dal governo. Ecco le sue parole: «Davanti a ciò che è successo non c’è più destra o sinistra, Netanyahu è il premier di tutti, è il mio premier, se non vinciamo contro Hamas non ci sarà più alcuna Israele, le mie idee adesso non contano, ciò che conta è l’esistenza della nostra nazione e del nostro popolo».

Il padre di Harel Wiesel sopravvisse ad Auschwitz, i figli sono nelle unità speciali e lui sente la responsabilità del momento: il ruolo dei civili che restano a casa è unire il popolo. Congelando le laceranti divisioni interne che nelle ultime 40 settimane hanno indebolito il Paese. Per questo c’è un’altra Israele, che non si vede a occhio nudo, fatta di decine di migliaia di persone che ovunque possibile si incontrano ed organizzano iniziative per sostenere i soldati e prepararsi ad affrontare un lungo conflitto. Ci sono catene di volontari — donne e uomini — che cucinano in continuazione per inviare pasti caldi ai militari, organizzano come trasportarli, preparano gruppi di docenti online se il conflitto dovesse causare la chiusura prolungata delle scuole e pensano alle attività da far svolgere ai bambini in tenera età. Più i centri urbani sono piccoli, più i gruppi di volontari sono meticolosi. L’effervescenza è sotterranea ma è ovunque, chiunque può fa qualcosa. Ma sempre sottovoce. È una nazione che torna alle origini, perché è lì che c’è la ricetta della sopravvivenza.

Accerchiati dall’Iran

La pianificazione della vita civile in tempo di guerra ha una partecipazione universale e ricorda quanto avvenne nel 1948, allorché la guerra d’Indipendenza fu combattuta in ogni angolo del Paese, dentro ogni città, villaggio e kibbutz. Come potrebbe essere anche ora. Perché il nemico non è solo Hamas ma anche l’Iran che lo sostiene, assieme a tutti i gruppi militari che eseguono gli ordini di Teheran. C’è un’infografica iraniana, pubblicata online da Iran International News, che descrive la strategia di Teheran: attaccare lo Stato Ebraico da ogni direzione usando i missili a lungo raggio e tutte le milizie armate create dai Guardiani della rivoluzione in Libano, Siria, Iraq, Yemen, Gaza e Cisgiordania.

Questo significa che l’operazione di terra nella Striscia può rivelarsi solo uno dei teatri di combattimento. «Due settimane fa nessuno di noi immaginava che l’Iran volesse realizzare il piano di distruggere Israele — afferma l’analista Alon Ben David dagli schermi di Canale 13 — ma ora dobbiamo fare i conti con questa realtà». Ciò comporta essere uno dei fronti del conflitto fra le democrazie ed i loro nemici di cui il presidente Joe Biden ha parlato giovedì notte agli americani. Anche per questo all’inizio di Rechov Yafo, proprio dove fino al 1967 passava il confine che divideva la città, il “Putin Pub” ha chiuso i battenti, ed anche la sua insegna non c’è più.

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Nei giorni dell’orrore Israele ha ritrovato l’unità smarrita

Il racconto del viaggio da Ashhelon a Sderot fino al kibbutz martoriato di Kfar Aza e all’incontro con Herzog e Gantz. Ora si respira un’atmosfera di fraternità che contrasta con i mesi sull’orlo d’una guerra civile

Come al tempo della guerra dei sei giorni e della guerra del Kippur, come al tempo delle guerre del Libano e delle prime guerre di Gaza… in questo funesto 7 ottobre arriva la notizia del pogrom in corso nella terra che gli ebrei credevano fosse per loro un rifugio. E io, come faccio ogni volta da mezzo secolo, per principio, per essere là, proprio là, al fianco di questo Israele fragile e forte, imperturbabilmente democratico nonostante gli si neghi l’esistenza, salgo sul primo volo.

Vado ad Ashdod Ashkelon, città costiere vicine alla Striscia di Gaza nelle quali, quando suonano le sirene, i pochi automobilisti in circolazione fermano l’auto in mezzo alla strada e si gettano in un fosso. Faccio una deviazione per andare a Be’er Sheva, che si trova più a Est, alle porte del deserto, e ospita il Soroka Medical Center, presso il quale vedo una processione di elicotteri scaricare feriti a un ritmo infernale. Poi torno verso Sderot che, ogni volta che scoppia una guerra, è la più esposta fra le città del Sud e mi accorgo di averla sempre vista sotto una pioggia di missili.

Che aspetto ha Sderot quando i bambini vanno a scuola, quando possono ridere e giocare invece di stiparsi nelle cantine degli edifici di viale Abergel dalle quali, nonostante lo spessore del cemento, si sentono fischiare i razzi? Che aspetto ha Sderot quando non ci si imbatte, in mezzo alla via Menachem Begin deserta, sul cadavere gonfio, con le gambe nerastre nude e l’arma ancora accanto, di uno jihadista ucciso durante le ultime fasi dell’assalto che, come altri più distanti, non si è avuto il tempo di coprire con una coperta di emergenza o con un lenzuolo?

E chi è Yossi, 83 anni, quando non deve trascorrere la notte in cantina sentendo, sopra la sua testa e quelle dei nipoti, i passi degli assassini che lo cercano – sanno che c’è, lo chiamano per nome, chiamano per nome i bambini che lui supplica, in silenzio, portando un dito alle labbra, di non rispondere e di non piangere… e per due volte gli assassini scendono e cercano di aprire la porta senza chiavistello contro la quale egli spinge con le sue poche forze, per tenerla ferma e far credere che sia murata… com’è il suo sguardo, quando non ha quell’aria spiritata e giovanile che il gesto da «padre coraggio» vi ha infuso?

Questa mattina Sderot è una città morta. Le sue strade sono vie dolorose e deserte in cui ci si domanda per chi brilli il sole. Il comandante della caserma dei pompieri è stato ucciso a bruciapelo mentre cercava di spegnere l’incendio divampato nella casa di una coppia di disabili ed è solo in occasione del suo funerale che incontro qualche persona: il sindaco; alcuni cecchini, posizionati all’ingresso, che a turno vengono a raccogliersi davanti al feretro; i pompieri, uniti in un dolore muto.

L’atmosfera da città fantasma, la morte che sovrasta tutto, lo scheletro del commissariato di polizia che si è dovuto distruggere per stanare gli ultimi terroristi e lo strano spettacolo di Gideon Levy, giornalista di Haaretz e vedette del fronte pacifista, in amichevole conversazione con un soldato che porta la kippah davanti alle macerie della facciata, spezzano il cuore. Verso Sud, nei kibbutz dove gli islamisti di Hamas hanno compiuto i loro massacri, la situazione è più dura. Quando arrivo a Kfar Aza, l’esercito ha finito di rimuovere il grosso dei cadaveri. Seguo un’unità di Zaka, un’organizzazione, più o meno integrata nell’esercito, che ha il compito di recuperare resti umani al fine di dare ai corpi, una volta ricomposti, una sepoltura degna, umana ed ebraica.

L’unità è composta da volontari civili e militari. Alcuni sono infuriati per l’incuria del governo, un altro, quando l’unità si raccoglie in cerchio, per la pausa caffè, nel giardinetto di un kibbutz devastato e trasformato in quartier generale, spiega che nessuno può mai fare nulla per fermare la follia del branco.

Sono laici e religiosi che fino alla settimana scorsa si battevano per essere esonerati dal servizio militare ma, quando la guerra è stata dichiarata, si sono precipitati, come tutti i riservisti, come chiunque altro, a raggiungere le proprie unità. Regna un’atmosfera di fraternità che contrasta con gli ultimi mesi trascorsi sull’orlo di una guerra civile. Conta il compito sacro di andare a recuperare, fra le case della zona Ovest, vicine alla barriera di sicurezza in cui gli aggressori hanno aperto una breccia, un pezzo di carne annerita, un piede intatto rimasto infilato nella scarpa, una traccia di Dna, una macchia di sangue.

Presto però ci dobbiamo fermare perché ci imbattiamo nel corpo di uno jihadista e temiamo che possa essere minato. Subito dopo c’è un momento di panico perché pare che ci siano due terroristi nelle vicinanze: si sarebbero appena infiltrati attraverso una nuova breccia, o attraverso la stessa ma allargata, non si sa. Sentiamo un drone sopra di noi e una serie di detonazioni sorde e ravvicinate. A quel punto arriva un’unità da combattimento: alcuni soldati si posizionano con un ginocchio a terra, altri si arrampicano sul tetto, altri ancora si dirigono a balzi verso la barriera di sicurezza tagliata con le cesoie, dalla quale proviene un fascio di scintille.

Mi fanno entrare in una casa sventrata, i cui abitanti sono stati uccisi. Vi resterò per due ore senza nient’altro da fare che ascoltare un vicino sopravvissuto che mi racconta l’assalto e mi accompagna nelle stanze di quel teatro di supplizi. L’intonaco del soffitto sgretolato dai proiettili… I muri crivellati di colpi… Il divano color crema che un’esplosione ha sollevato da terra e scaraventato, attraverso il salone, fino alla vetrata in frantumi… Nella stanza da letto dei genitori vedo il letto disfatto, bigodini, pantofole distrutte… In quella dei bambini un gatto a pile che miagola ogni mezz’ora… In cucina, una tazza di cioccolata intatta, il tostapane, lo sciroppo per la tosse, un peluche, il cesto per la biancheria rovesciato… In fondo a un corridoio c’era la camera blindata, gli assalitori non sono riusciti ad aprirla e hanno dovuto farla saltare con una granata.

Non credevo di potermi emozionare tanto davanti a degli oggetti inanimati. Né davanti al ritratto a carboncino, appeso al muro, di un sessantenne con la camicia ampia, il gilet senza maniche, la pipa in bocca e il cappello floscio gettato all’indietro, che mi ricorda i contadini di Steinbeck o i pionieri di Israele dei romanzi di Abraham Yehoshua o di Amos Oz.

Del resto, che cos’è Kfar Aza? E che cos’ha in comune con Sa’adBé’eri e Re’im, le altre località martiri di questa zona di Israele? Non sono, giustamente, delle località. Né soltanto villaggi. Sono kibbutz, le comunità rurali tipiche dell’Israele degli esordi che qui resistono ancora oggi. Sono la testimonianza vivente di un Israele libertario e liberale, i cui abitanti spesso sono fra i più ferventi sostenitori della pace con i palestinesi.

Hamas contro i kibbutz. Le Einsatzgruppen islamiste contro i seguaci di una delle poche utopie del XX secolo che non sia finita in pezzi. Anche questo fa parte del senso della guerra che sta per cominciare.

Non c’è modo, nel momento in cui scrivo, di prevedere come sarà l’offensiva di terra dell’Idf, se sarà a tappeto o mirata, lunga o breve, né di dire se ci sarà davvero… A Gerusalemme però ho incontrato Yitzhak Herzog, l’undicesimo presidente di Israele; il suo potere, in linea di principio, è puramente simbolico ma il suo carisma e il discredito in cui è caduto Netanyahu ne hanno fatto una figura centrale della scena politica nazionale.

Non pronuncia mai la parola «vendetta». Nemmeno per un momento, questo ex avvocato intriso di cultura ebraica e di umanesimo si discosta dall’atteggiamento saggio e misurato che ha sempre avuto. Ma percepisco che è inquieto. Quasi impaziente. È convinto di una cosa: il massacro del 7 ottobre è la «peggiore tragedia della breve storia di Israele». E di un’altra: Hamas non è «né un’organizzazione di resistenza né un movimento di liberazione nazionale, è un gemello dello Stato islamico». E il mondo occidentale – insiste – ora si trova al «momento della verità»: capirà che è impossibile non punire chi ha sgozzato i ragazzi del festival musicale Supernova? Farà in modo, assieme a Israele, «che chi ha ordinato questa infamia, che si trovi a Gaza, a Doha o a Teheran, non possa farlo mai più?» E che cosa dirà l’Europa davanti allo spettacolo di quella che «il nostro amico Claude Lanzmann», in un bel film, chiamava la ritrovata forza degli ebrei?

A Tel Aviv, incontro l’ex vicepremier Benny Gantz prima che accetti la proposta di Netanyahu di entrare nel governo di unità nazionale. Sa di correre un rischio politico personale. Ma non è più una questione personale, mi dice. Prova ne sia che si è ripromesso di lasciare il Gabinetto nel momento stesso in cui la guerra sarà vinta… Prima però bisogna combatterla. Bisogna rendersi conto che lo Stato ebraico, minacciato lungo tutte le sue frontiere, è sull’orlo del precipizio. E bisogna tenere presente che ci sono momenti difficili in cui tutto Israele, sotto la duplice spinta dei nemici all’esterno e, all’interno, del cedimento degli animi, rischia di sprofondare. Per Gantz come per il presidente, non ci sono dubbi: i palestinesi non sono nemici di Israele ma Hamas deve assolutamente essere distrutta.

E poi ho visto le unità dell’Idf sul campo, posizionate intorno alla Striscia di Gaza, che si preparano a entrare in azione con bulldozer antimine, carri armati veri e finti e una miriade di riservisti. Il rombo dei cingoli dei carri armati che si scaldano. Gli elicotteri sopra le nostre teste, il brusio indistinto di questa massa di giovani donne e uomini, venuti da tutte le nazioni del mondo per affrontare una delle prove più tragiche della storia dello Stato.

Riusciranno a salvare allo stesso tempo il loro popolo e gli ostaggi? Sapranno restare fedeli alla morale ebraica che, per esempio, al pronto soccorso di Be’er Sheva impone – l’ho visto con i miei occhi – di curare sia gli jihadisti catturati, sia i bambini ebrei miracolati?

E la famosa purezza delle armi, tanto cara ai pionieri di Israele? Quella tohar haneshek secondo cui in ogni unità dell’Idf, assieme agli uomini d’armi, devono esserci uomini di legge e di principi capaci di discutere o respingere un ordine se non lo ritengono conforme al diritto internazionale o all’etica? Che valore avranno, quegli imperativi, di fronte al cinismo smisurato di un avversario che prende in ostaggio il suo stesso popolo e non esita a farne un bersaglio, se in quel modo può trasformarlo in uno strumento di propaganda?

Che cosa farà l’Egitto, nazione a suo dire alleata e sorella del popolo palestinese? Aprirà la sua frontiera alle centinaia di migliaia di gazawi a cui verrà chiesto di lasciare la parte settentrionale della Striscia per mettersi al riparo dalle bombe che cadranno sui depositi di munizioni, i centri di comando e i tunnel di Hamas? E questi giovani soldati torneranno vivi da Gaza? Fra loro ci sono persone di sinistra e di destra. Sostenitori di Netanyahu e suoi oppositori, che loro malgrado lo riconoscono come comandante in capo. Ebrei che portano i tefillin e altri che non li portano. Non ho sentito nessuno di loro negare che questa guerra, ahimè, sia giusta e che sia necessario vincerla.

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Vietato difendersi

Amira Hass , Haaretz

I palestinesi che vivono sotto l’occupazione israeliana in Cisgiordania non possono proteggersi dalle aggressioni dei coloni. E’ il risutato di un sistema che da decenni alimenta il suprematismo ebraico.

Ai palestinesi della Cisgiordania è vietati difendersi -difendere le loro vite, la loro terra o le loro proprietà-dagli aggressori ebrei. L’autodifesa contro i coloni ebrei in Cisgiordania è un reato che può avere conseguenze molto pesanti, l’arresto, un processo, il carcere o la morte. Non è una questione di interpretazione, ma una sintesi della contorta realtà dietro l’omicidio del palestinese Qosei Mitan, avvenuto ad agosto nel villaggio di Burqa, in Cisgiordania, e dietro alla farsa dell’arresto di Amar Asliyyeh, ferito da colpi di arma da fuoco, e dei suoi tre figli, accorsi per impedire agli invasori di entrare nel loro villaggio.

Ai palestinesi non è permesso usare armi per difendersi né pietre o bastoni, e non gli è nemmeno permesso difendere gli altri. Tutto queste cose sono considerate una sorta di “sabotaggio” o, nel migliore dei casi, disturbo della pace, non solo quando ad attaccare sono persone inviate in veste ufficiale -soldati e poliziotti- ma anche se sono semplici ebrei in abiti civili.

Il divieto è sancito dalla legislazione militare, da una prassi radicata nell’esercito israeliano, dai pubblici ministeri e dai tribunali, in un’atmosfera di supremazia ebraica, e anche dagli accordi di Oslo. E’ una rete complessa in cui ogni componente è collegato a un altro e lo tiene in piedi.

La missione primaria

Non c’è da stupirsi che lo Shin bet (i servizi segreti israeliani) e l’esercito siano preoccupati. Non servono informazioni dai collaboratori o sofisticate apparecchiature per sapere che questa realtà è come un contenitore di bombe a grappolo che qualsiasi colono con il fucile può far saltare in aria. Ma lo Shin bet e l’esercito sono ostacolati da una realtà che loro stessi hanno plasmato e mantenuto. La rete spiega come gli attentati siano possibili e perché i loro autori siano numerosi tra gli ebrei osservanti e timorati di Dio.

Secondo il diritto internazionale, i soldati hanno l’obbligo di garantire il benessere della popolazione civile protetta (occupata). Ma l’esercito non rispetta la legge, perché il progetto mirato al furto della terra, che Israele tutela, è in conflitto con il benessere di quelle persone. L’esercito non le protegge dalla violenza dei civili ebrei perché la sua missione primaria in Cisgiordania è proteggere i cittadini israeliani. O, più precisamente, gli ebrei tra loro, in particolare quelli che portano avanti il progetto di espropriazione in cui sono coinvolti gli insediamenti. Anche se non tutti i comandanti e i soldati si identificano con il piano di insediamento, negli anni l’obbligo di difendere solo i coloni ebrei è stato interiorizzato. Generazioni di soldati sono state addestrate a credere che non proteggere i palestinesi sia un valore, un principio indiscusso e un ordine. Di conseguenza i soldati restano in disparte quando ci sono i pogrom contro i palestinesi, o addirittura aiutano i rivoltosi ebrei ad attacarli e a espellerli dalla loro terra. E quando gli attivisti di sinistra accompagnano i palestinesi, il fatto che siano ebrei non li aiuta. I soldati attacano ed espellono anche loro.

“Nessuna marcia, raduno o picchetto deve svolgersi senza un permesso del comandante militare”, afferma l’ordine 101 del 1967 sul divieto d’incitamento e propaganda ostile. I palestinesi sanno che se si mettono a difendere un pastore o un contadino, i soldati li “disperderanno” con i mezzi a loro disposizione: dai gas lacrimogeni alle percosse fino ai proiettili.

Per qualche motivo l’esercito non era lì il 4 agosto, quando un gruppo di coloni devoti si sono messi a pascolare il loro gregge sul terreno di Burqa. Un fatto strano visto che i militari stazionano lì vicino all’avamposto di Ramat Migron giorno e notte. Ma anche se ci fossero stati, sicuramente avrebbero disperso “l’assembramento illegale” dei residenti di Burqa e non i coloni invasori. Questo succede in ogni villaggio palestinese dove la terra o le sorgenti sono occupate dai coloni, o nei frutteti palestinesi che i coloni vandalizzano.

Negli ultimi mesi è successo, per esempio, nel villaggio di Qaryut, a nord di Ramallah. Ogni venerdì, un gruppo di israeliani provenienti dagli insediamenti vicini (Eli, Shiloh e i loro avamposti) va a fare il bagno nella sorgente al centro del villaggio, un metodo per espropriarla (dopo essersi impossessati delle sorgenti di altri tre villaggi della zona). L’esercito si trova nelle vicinanze (e arriva addirittura prima dei coloni) per impedire ai residenti palestinesi di cacciare i coloni invasori, tra cui ci sono anche bambini piccoli.

Poi ci sono le incursioni notturne nelle case degli abitanti che osano opporsi a queste invasioni: arresti e processi davanti a giudici militari israeliani, seguiti da mesi di prigione e pesanti multe per far sì che i residenti si arrendano e non cerchino di cacciare gli invasori dalla loro terra.

La legge militare impedisce ai palestinesi di possedere o usare armi. I coloni israeliani, che (quando gli fa comodo) sono soggetti invece alla legge israeliana, ottengono licenze dal ministero della sicurezza nazionale.

Gli agenti delle forze di sicurezza palestinesi ricevono da Israele il permesso di possedere armi, ma solo nei territori della Cisgiordania designati come area a, controllati dall’Autorità Nazionale Palestinese (Anp). Possono portarle per periodi limitati nell’area b (sotto il controllo civile palestinese e militare israeliano) dopo aver seguito estenuanti regole di coordinameento. Fuori di queste enclave, gli accordi di Oslo gli impediscono di agire. In ogni caso, anche nelle aree a e b, non possono far rispettare la legge e l’ordine quando i coloni attaccano i palestinesi. I poliziotti palestinesi non sono autorizzati a mostrare le armi per tenere a bada i rivoltosi ebrei, figuriamoci a usarle (se lo facessero sarebbero portati in carcere come terroristi). Non possono arrestare gli ebrei nei territori palestinesi, tanto meno fuori.

All’Anp è vietato processare i coloni per incursioni e vandalismo in un tribunale palestinese. ” La polizia palestinese sarà responsabile degli incidenti di ordine pubblico che coinvolgono solo i palestinesi”, dice l’articolo 13 dell’accordo provvisorio di Oslo. L’Anp, guidata da Abu Mazen, rispetta religiosamente questa clausola e non è riuscita ad adattare metode e tattiche alla nuova realtà.

L’articolo 15 degli accordi di Oslo stabilisce che ” entrambe le parti prenderanno tutte le misure necessarie per prevenire atti di terrorismo, crimini e ostilità reciproci” e “contro le loro proprietà”. C’è molta falsa simmentria in questa frase, perché l’Anp non è uno stato sovrano e, come il suo popolo, è soggetta all’occupazione militare israeliana, che non ha intenzione di contrastare la violenza dei coloni. L’Anp non può proteggere il suo popolo, ma ha l’obbligo di agire contro di lui.

La polizia, la sicurezza e i servizi segreti civili e militari dell’Anp, che arrestano le persone per aver criticato la leadership e che Israele vuole dalla sua parte per riprendere le operazioni a Nablus e Jenin, non sono presenti nelle decine di villaggi e comunità sottoposte al terrore quotidiano dei coloni israeliani.

Ad agosto la comunità palestinese di Al Qabun, composta da dodici famiglie (86 persone) di pastori, ha dovuto abbandonare la valle del Giordano a causa delle violenze degli avamposti circostanti. E’la quarta comunità della zona costretta a fuggire negli ultimi mesi per una combinazione di molestie dei coloni, divieti di costruzione e movimento decisi dall’amminiistrazione civile israeliana e per l’assenza di una forza che la proteggesse.

Questa contraddizione e l’ingiustizia che rifette tormentano molti palestinesi in servizio nelle forze dell’Anp. Dovrebbero preoccupare anche i leader di Al Fatah e dell’Anp. Non è chiaro per quanto tempo e a quale costo personale e politico potranno continuare a contenere la rabbia popolare contro di loro.

Amira Hass (Gerusalemme28 giugno 1956) è una scrittrice e giornalista israeliana che lavora per il quotidiano Haaretz. È conosciuta a livello internazionale per aver descritto la vita dei palestinesi in Cisgiordania e a Gaza, dove lei stessa ha vissuto per alcuni anni.

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