Se gli oppressi diventano oppressori
di Antonio Scurati
33 gruppi di studenti di Harvard hanno pubblicato una lettera nella quale dichiarano di considerare “il regime di Israele responsabile di tutte le violenze causate da vent’anni di apartheid a Gaza”
Talvolta gli oppressi divengono oppressori. Non mi riferisco qui ai figli delle vittime della Shoah che opprimono il popolo palestinese. Mi riferisco, invece, ai figli del privilegio americano che odiano attivamente i cittadini di Israele.
I fatti. La settimana scorsa ben 33 gruppi di studenti di Harvard pubblicano una lettera aperta nella quale dichiarano di considerare “il regime di Israele totalmente responsabile di tutte le violenze causate da vent’anni di apartheid a Gaza”. Stando a questi studenti della più prestigiosa università del mondo, i massacri di Hamas sarebbero responsabilità dei massacrati e non dei massacratori.
Si tratta dello stesso argomento usato da Adolf Hitler al principio del 1942 per giustificare l’imminente sterminio degli ebrei d’Europa da lui deciso. Esagero? Non esagero: “Il giudaismo trama una guerra mondiale internazionale per annientare, diciamo, i popoli ariani, mentre non saranno i popoli ariani che saranno annientati, ma il giudaismo“. Questo il concetto espresso da Hitler durante il suo discorso allo sportpalast di Berlino del 30 gennaio 1942; e questa la precisazione fornita a Goebbels in una conversazione privata nel febbraio dello stesso anno: “È inammissibile qualsiasi sentimentalismo, in questo caso. I giudei si sono meritati la catastrofe che vivono oggi. Così come vengono annientati i nostri nemici, anch’essi andranno incontro al proprio annientamento“.
Ebbene, di fronte a quest’aberrazione, per due giorni il vertice dell’ateneo tace. Poi, soltanto il terzo giorno, dopo proteste di insigni ex studenti e minacce da parte di ricchi donatori di interrompere i finanziamenti, la presidente di Harvard, Claudine Gay, prende timidamente le distanze tenendo, però, una posizione cautamente neutrale. E si tenga presente che ciò accade nel contesto di una crescente diffusione di comportamenti manifestamente ostili, e talvolta discriminatori, da parte degli attivisti universitari statunitensi nei confronti dei loro colleghi ebrei.
Com’è possibile? È possibile perché da anni negli Stati Uniti e altrove gli attivisti di movimenti per la liberazione degli oppressi usano aggressivamente tecniche di boicottaggio e di stigmatizzazione. Sulle loro piattaforme social attaccano violentemente chiunque dissenta dalle loro posizioni gettando su di lui un marchio d’infamia in modo da declassarlo a un livello inferiore. Insomma, lo strumento dello stigma, usato per millenni dalle società tradizionali per identificare, degradare ed emarginare i soggetti cosiddetti “devianti”, viene ora sistematicamente usato dai paladini dei discriminati per discriminare a loro volta.
È un fenomeno molto più vasto dell’attivismo anti-israeliano. L’antisemitismo mascherato da antisionismo — cartina di tornasole di ogni falsa coscienza occidentale — di parte della élite studentesca statunitense rivela la natura aggressiva, illiberale e oscurantista della sinistra radicale movimentista americana. Da un decennio, oramai, nelle università statunitensi frange estremiste impediscono ai docenti di letteratura di insegnare letteratura (i grandi autori del canone occidentale sono banditi in quanto fautori della supremazia bianca, compresa Margaret Atwood, rea di femminismo tradizionale); conculcano il pluralismo e la libertà d’espressione in nome di quella stessa libertà, ostracizzano l’intero passato — impedendone la comprensione — per conto di un presente arbitrario e assoluto (la cosiddetta cancel culture); mettono in permanente e inappellabile stato d’accusa intere categorie di persone, a prescindere dalle loro responsabilità individuali, in nome dei diritti della persona (soprattutto i maschi caucasici adulti ma anche le donne che vogliano perseverare nel pensarsi e definirsi come tali e, come abbiamo visto, all’occorrenza, anche gli ebrei); disconoscono i diritti della maggioranza in nome della difesa di quelli delle minoranze. Fanno, insomma, il deserto e la chiamano cultura.
C’è un’aria di famiglia in questi paladini degli oppressi pronti a trasformarsi in oppressori. L’accecamento ideologico, il rifiuto sdegnoso dell’universalismo illuminista, il complottismo compulsivo, l’elitarismo mascherato da avanguardismo, l’autoproclamata superiorità morale, il perenne sindacato a difesa di sé stessi, il bisogno insopprimibile di sentirsi antagonisti del sistema, il desiderio sfrenato di un nemico da odiare. Sono tutte cose che abbiamo già visto e già sentito. Non vi suonano famigliari? Non vi ricordano il fanatismo settario delle sedicenti avanguardie della rivoluzione comunista mondiale quando negli anni sanguinosi della lotta di classe affermavano che in certi momenti della storia le ragioni del proletariato devono prevalere su quelle dell’umanità?
Nel mondo culturale accade oggi qualcosa di analogo. Attivisti aggressivi illiberali, che si ergono ad avanguardia intellettuale di una presunta rivoluzione politica, antropologica e sociale, pretendono di trasformare le ragioni di sacrosante lotte minoritarie nel torto di imporre alla maggioranza una ridefinizione integrale del suo modo di parlare, di pensare, di amare e di vivere. Di fronte a queste minoranze rissose, la maggioranza, spaventata, si fa silenziosa. E anche questo lo abbiamo già visto.
Mi è capitato centinaia di volte di raccogliere in privato sfoghi di intellettuali di sinistra esasperati da istanze estremiste propagandante come del tutto ovvie dai rappresentanti più radicali della ideologia gender o della cancel culture. Critiche che non diventano mai pubbliche per paura dello stigma.
E non è solo un tema che riguardi gli Stati Uniti o piccole cerchie intellettuali. L’intera nostra atmosfera culturale inizia ad essere opprimente. Su troppe questioni vitali la scena si va sempre più polarizzando agli estremi, dominata dagli attivisti di una sinistra militante e minoritaria, apparentemente contrapposti ma in verità funzionali alla reazione di estrema destra. È giunto il tempo che nel campo culturale la maggioranza silenziosa torni a parlare.
Antonio Scurati