Se il conflitto interno alla società alimenta la democrazia d’Israele
di Maurizio Molinari Repubblica 28 marzo 2023
La storia dello Stato ebraico è costellata di scontri causati dalla natura rivoluzionaria del sionismo e dalle sue differenti identità
La grande protesta popolare che da dodici settimane sfida la riforma della Giustizia proposta dal premier Benjamin Netanyahu è senza precedenti nei quasi 75 anni di vita dello Stato ebraico: forza politica e aggressività verbale delle manifestazioni ripropongono la dirompente energia che ha distinto i conflitti più aspri durante l’intera parabola ultracentenaria del movimento sionista, concludendosi sempre con un vincitore ed uno sconfitto. A rendere drammatico lo scontro è il fatto che, per gli opposti campi, ha in palio qualcosa che vale ancor più della riforma ovvero l’identità stessa della democrazia israeliana.
Da un lato c’è il premier, sostenuto dalla coalizione più a destra mai arrivata alla guida del governo, che si propone di riformare la Giustizia – ed in primo luogo la Corte Suprema – per “sanare gli eccessi” dovuti ad uno “strapotere dei giudici” e dall’altra c’è il fronte della protesta che imputa proprio a questo progetto la “fine dello Stato di diritto” e la “morte della democrazia” a causa della volontà di “sottomettere il potere giudiziario a quello esecutivo e legislativo” con norme come la possibilità per la Knesset (il Parlamento) di respingere con un voto le sentenze della Corte Suprema.
È in questa caratteristica identitaria, totale, del conflitto politico che si ritrova e riconosce la natura rivoluzionaria all’origine di un movimento come il sionismo che, alla fine dell’Ottocento, si propose di porre fine alla Diaspora bimillenaria per dare vita ad uno Stato ebraico nell’antica terra dei padri. Basti ricordare che, nel 1903, Teodoro Herzl – fondatore del sionismo moderno e leader politico vincitore del primo Congresso sionista nel 1897 – guardava con favore all’offerta britannica di creare il nuovo Stato in Uganda ma venne su questo sfidato e sconfitto dal rivale Chaim Weitzman che lo aveva accusato di tradire il suo stesso progetto originario.
Venti anni dopo, con l’immigrazione ebraica che aveva creato i primi insediamenti nella Palestina sotto mandato britannico, il conflitto si ripropose, ancor più radicale: da un lato c’erano i sionisti “idealisti” arrivati in gran parte dall’ex impero russo in coincidenza con la rivoluzione bolscevica per creare “un nuovo modello di ebreo”, legato alla rinascita della propria terra, e dall’altra c’erano i sionisti accusati di essere “opportunisti” perché arrivavano spinti solo dalla necessità di trovare un rifugio dall’antisemitismo europeo negli anni in cui l’America del presidente Coolidge chiudeva le porte agli immigrati.
Il conflitto fra “idealisti” e “opportunisti” fu assoluto, totale, fino a quando fra i primi non si impose David Ben Gurion, obbligando gli uni e gli altri a far prevalere la necessità di creare al più presto lo Stato tanto più che l’Europa era in preda al nazifascismo. Ma anche Ben Gurion, primo premier nel 1948, non fu da meno in quanto ad accese rivalità: nel suo caso sul fronte opposto c’era Zeev Jabotinsky, leader dell’Irgun revisionista, che immaginava uno Stato ad economia capitalista – e non socialista come Ben Gurion – nonché esteso su tutto il territorio dell’ex mandato britannico – inclusa l’attuale Giordania – mentre Ben Gurion accettava i compromessi territoriali con gli arabi-palestinesi pur di arrivare in fretta allo Stato.
Lo scontro fra l’Haganà – la forza paramilitare dei sionisti socialisti di Ben Gurion – e l’Irgun di Jabotinsky arrivò fino all’uso del fuoco quando, poco dopo la nascita dello Stato, i primi fecero fuoco sui secondi per impedire lo sbarco delle armi della nave “Altalena”, poco a Nord di Tel Aviv. Quei 16 morti causati dallo scontro armato fra Haganà e Irgun sulla spiaggia di Kfar Vitkin restano ancor oggi una ferita profonda nel movimento sionista, un monito immanente sul rischio a cui si va incontro quando la sfida, identitaria e di potere, per la guida del movimento prende il sopravvento sulla necessità di unirsi per difendersi da chi nel mondo circostante arabo-musulmano, allora come oggi, ancora nega il diritto degli ebrei ad avere uno Stato.
È stata la somma fra la natura rivoluzionaria del sionismo ed il fatto di essere composto da una miriade di correnti ed identità differenti specchio della Diaspora – socialisti, comunisti e revisionisti, laici e osservanti, ashkenaziti e sefarditi, tedeschi e nordafricani, galiziani e yemeniti – a dar vita a questi scontri epocali, che con la nascita dello Stato si sono trasferiti dentro la vita politica.
Dalla decisione del kibbutz Ein Harod di dividersi in due negli anni Cinquanta fra sostenitori ed avversari di Josif Stalin all’incontenibile avversione fra i leader laburisti e il Likud di Menachem Begin esaltata dalla guerra in Libano nel 1982, fino al duello politico senza esclusione di colpi – che ha tenuto banco per oltre una generazione – fra due alleati dello stesso partito come Shimon Peres e Yitzhak Rabin. Ed all’omicidio politico proprio di Rabin nel 1995 da parte di Igal Amir, un estremista di destra contrario agli accordi di Oslo siglati due anni prima con i palestinesi di Yasser Arafat.
Netanyahu, erede di Begin e leader del Likud, è riuscito per oltre venti anni a navigare attraverso queste lacerazioni politiche – alleandosi con i partner più diversi – ed alle ultime elezioni ha portato con sé l’estrema destra di Itamar Ben Gvir e Bezalel Smotrich, sostenitrice di posizioni di forte rottura, dai rapporti con gli arabi alla sfida frontale sulla Giustizia. Ma non è tutto perché dietro la vittoria alle ultime elezioni di questa coalizione si intravede l’emergere di una nuova generazione di israeliani che non si riconosce nella laica Tel Aviv o nei kibbutzim fondati in gran parte da immigrati askenaziti ed europei perché più legata ai valori della tradizione, più di origine sefardita e più presente negli insediamenti della West Bank. Ecco perché la resa dei conti sulla riforma della Giustizia cela anche un conflitto frontale sull’identità dello Stato. Seguendo il metodo rivoluzionario dello scontro continuo, identitario e totale, per sostenere una società democratica come se fosse un ponte sempre in bilico.