L’Acrobata di Laura Forti, in 100 pagine tutte le cose importanti della vita
Stefano Jesurum 9 aprile 2019
La domanda è come si possano concentrare in poco più di cento pagine l’essenza stessa del dolore e dell’amore, la violenza struggente dell’esilio, la bruciante ricchezza delle identità plurime, la rabbia sorda, la Memoria e le memorie, il lacerante senso di giustizia e il linguaggio profondo della depressione. E orgogli. E rimorsi. Tutto ciò in una narrazione che parte da due ebrei rivoluzionari nella Russia bianca zarista, passa per l’Italia dapprima accogliente e poco dopo vigliacca e fascista, zig-zaga tra Svizzera, Cile e Svezia. Per concludersi in un epistolario via e-mail tra una nonna affermata geologa e un nipote clown.
Accadimenti reali, emozioni e pensieri associati e dissociati e di nuovo associati nella mente e nel cuore di una donna. Memoria e memorie al femminile, che perforano il fondo dell’anima. «Ogni riferimento ai fatti e alle persone che li hanno compiuti è autentico; ogni parola, ogni pensiero di quelle persone è un’idea, Un’immaginazione, una speranza», scrive Laura Forti, l’autrice di “L’acrobata” (Giuntina editore). Un ricordo lontano, il cugino Pepo che dopo il golpe di Pinochet si ferma qualche giorno con la madre a casa Forti, a Firenze. 1987, fuggono, ancora una volta qualcuno della famiglia scappa. Quindi nel 2008 un viaggio a Santiago, e l’apparire di un dybbuk, di un’ossessione. Dybbuk e ossessione s’impossessano di Laura. Che ricerca, studia, chiede, vuole sapere. Vuole conoscere la storia del padre di Pepo, Jose Valenzuela Levi che 29enne – 16 giugno 1987 – fu ucciso dalla Dina, la spietata polizia cilena. Lui e alcuni compagni di lotta, i responsabili del fallito attentato al dittatore, massacrati. Una volta catturati fu strage dimostrativa, la Matanza de Corpus Christi. Vuole conoscere, Laura, e cercare di comprendere perché la sua famiglia non ne sapesse alcunché o non avesse mai voluto approfondire.
Così nasce “L’acrobata”, dapprima testo teatrale e ora libriccino prezioso. Probabilmente anche perché, o soprattutto perché, la potenza e la necessità del racconto sono inscindibili da qualunque “modo” di essere ebrei: tramandare la storia ai nipoti e al mondo aiuta a salvare se stessi, e forse il mondo. Dunque Pepo, alias Comandante Ernesto, ovvero Jose, lascia la Svezia divenuta rifugio sicuro, lascia la madre, le certezze, la comodità. In nome della giustizia. Perché? «Forse perché eravamo stati costretti a scappare, eravamo stati perseguitati come minoranza, forse perché avevamo perso tutto, come oggi succede agli immigrati?». Forse.
Forse per via che in alcune vicende umane si mescolano l’ebraismo, il bolscevismo, la Hashomer Hatzair e il suo sionismo socialista, e la Gioventù Comunista, i valori universali di giustizia, la speranza (quasi messianica) nel futuro e le molteplici sfaccettature di una medesima identità. E la paura, tanta paura. Paura trasmessa di generazione in generazione in una sorta di psicoDNA (come bene ha spiegato Anne Ancelin Schützenberger in “La sindrome degli antenati – Psicoterapia transgenerazionale e i legami nascosti nell’albero genealogico”). Paura, paure, e depressione come estrema difesa, «Se ero morta dentro, chi poteva farmi ancora del male?». E coraggio, eroismo, l’altra faccia del buco nero.
Una lettura importante. Parafrasando la nonna che scrive a totopajazo@gmail.com, grazie. Grazie Laura Forti per quelle lacrime..
Stefano Jesurum