Israele e Gay Pride, una lunga storia
di Stefano Jesurum dal libro “Israele nonostante tutto”, Longanesi, 2004
…. Io so cosa fare adesso, me ne torno a Tel Avìv, lì ci saranno pure “quelli che fanno le feste”, ma a Gerusalemme la cupezza attanaglia, avvolge e diviene angoscia. Troppe certezze, troppe fedi e tutte assolute, troppo assoluto, troppo di tutto. Da ragazzi ci si può permettere di sentirsi profeti, si può essere convinti di avere la verità in tasca. Quanto ero orgoglioso di partecipare al picchetto d’onore che all’università Statale di Milano accoglieva il compagno Abù Qualcosa. “Sì – mi convincevo – sono un ebreo giusto”. Poi mi hanno fatto capire che ero un ebreo e basta.
1972, Monaco, Germania, i fedayn compiono un massacro. Il 5 settembre, alle quattro e dieci del mattino, un commando di otto uomini riesce a entrare negli alloggi della squadra olimpica israeliana. I terroristi di Settembre Nero uccidono subito l’allenatore di lotta libera Moshe Weinberg e il campione nazionale di sollevamento pesi Yosèf Romano. Nell’appartamento al numero 31 di Connollystrasse ci sono altre dodici persone. Tre riescono a scappare, nove vengono prese in ostaggio: i lottatori Mark Slavin e Elièzer Halfin, i pesisti Davìd Berger e Zeev Friedman, gli allenatori Kehat Shorr, Andre Spitzer e Amitzur Shapiro, i giudici Jokov Springer e Joseph Gotfreund. In cambio della loro liberazione, il governo israeliano dovrebbe scarcerare immediatamente duecentotrentaquattro prigionieri, il governo tedesco i principali esponenti della Rote Armee Fraktion. Da Tel Avìv il premier Golda Meir fa sapere che non tratta. Il risultato è un orripilante bagno di sangue: muoiono i nove ostaggi più un poliziotto e un pilota d’elicottero, dei fedayn cinque sono uccisi e tre catturati.
Le Olimpiadi non si fermano, the show must go on. Che vergogna. Corro in via Festa del Perdono, dove c’è la mia università, la mia famiglia, il mio Movimento studentesco. Con l’eloquio tipico di quegli anni dico che questo è un tragico errore, che così si infanga la giusta causa del popolo palestinese. I miei capi rispondono: “Su questi temi, voi compagni ebrei è meglio che stiate zitti”. Quella sera, a casa, piango.
Il passare degli anni peggiora le cose. Mi aspetta dell’altro. Ad esempio vedere nelle recenti manifestazioni per la pace qualche maledetto imbecille vestito da kamikaze di Hamàs. O sapere che a Parigi i compagni di mia figlia, i ragazzi dell’Hashomèr Hatzaìr, scendono in piazza a urlare insieme a tanti che la guerra in Iràq è sbagliata, che va fermata: ma dal momento che indossano la casacca azzurra del movimento sionista-socialista, che proprio in quei giorni compie novanta anni, allora li picchiano selvaggiamente. Sarà per questo che adesso io, da non osservante quale sono, il 25 aprile e il Primo maggio sfilo dietro alle rosse bandiere internazionaliste con la mia brava kippà (non ricamata) in testa?
Sono i ricordi a tenermi sveglio mentre scendo a Tel Avìv. Cerco un baretto a Nèveh Tsèdek, quartiere chic-alternativo che non ha nulla da invidiare a certe zone di Parigi o Londra o New York. Ho urgenza di aria, di persone che sappiano sorridere, godersi la vita, ho bisogno di un buon cocktail. Il cuore di Nèveh Tsèdek è via Shabàzi, con le sue erboristerie e i locali dove praticano massaggi di ogni genere purché siano orientaleggianti, le palestre per arti marziali, eleganti boutique, scuole di danza del ventre, negozi che vendono vecchi manifesti, centri yoga, bigiotteria non convenzionale, ricercatezze.
Alcuni padri rasta passeggiano con il figlioletto infilato nel marsupio appoggiato sulla pancia, giovani donne pedalano su biciclette dai portapacchi carichi di sacchetti, una vecchia coppia di raffinati omosessuali esce a mani vuote dalla libreria dove forse ha cercato un romanzo che non è più in commercio. Ci sono molti cani, grandi, piccoli, di razza, meticci. Anni fa, in Israele, ce n’erano pochissimi, di cani. Chiedevo perché e mi rispondevano: “Non abbiamo tempo, c’è altro di cui occuparsi”.
Dietro a via Shabàzi scorre un labirinto di stradine su cui si affacciano caffè con giardini da mille e una notte. Sbirciando attraverso i portoni delle case più affascinanti appaiono all’improvviso cortili fioriti. In uno, sotto a un albero, una soldatessa in divisa verde, con il mitra appoggiato sul fianco, sta baciando appassionatamente un ragazzo con la coda di cavallo bionda, e lui con una mano le accarezza il seno, con l’altra la tiene appiccicata a sé.
Desiderio, sesso, amore, tenerezza. Il contrario delle caserme, delle camerate. Ricordo ciò che mi ha bisbigliato la moglie di un amico: “Per noi donne la Tzavà è più pesante, per le cose che vedi intorno, per i turni massacranti, per la nostra stessa natura. Però se ti dai al tuo ufficiale – e ce ne sono di assai carini – diventa più facile, è ignobile e umiliante, ma più facile”.
Al cameriere che porta un martini vodka domando informazioni sull’associazione Agudà per la “protezione dei diritti individuali”. La si raggiunge in meno di un quarto d’ora. L’indirizzo che avevo appuntato sul taccuino era sbagliato, per fortuna dalle finestre della sede sventola un enorme e riconoscibilissimo drappo arcobaleno. Ad aprire è Shaul, la cui massiccia corporatura da paracadutista è in netto contrasto con l’acquosità malinconica degli occhi celesti. C’è un altro giovane uomo presente che invece è scuro, riccio e mingherlino, porta la kippà ricamata dei religiosi, e la cosa – debbo ammetterlo – mi colpisce. Mi stupisco del mio stupore, per un istante vince l’imbarazzo. Di loro non so nulla, soltanto che rappresentano l’orgoglio gay. Essere gay, da queste parti, ha un significato – se possibile – ancora più estremo che in altre regioni del mondo. Vuol dire, per esempio, che esistono più di cinquecento individui fra i venti e i trent’anni, omosessuali, bisessuali e transessuali, che si nascondono nei sobborghi di Tel Avìv, che non possono lavorare perché non hanno un permesso di soggiorno, che vivono nel terrore di essere arrestati dalla polizia e di essere rispediti a casa. Ovvero a Ramallah, Gaza, Nablus. Sono palestinesi che convivono con un compagno ebreo. Si nascondono dalle famiglie che, se li trovassero, purificherebbero col sangue il disonore di un figlio o un fratello luti, contronatura secondo il mondo musulmano, frocio, finocchio, checca.
Shaul mi dice di Loren, all’anagrafe israeliana maschio, nella quotidianità donna truccatissima dai lunghi capelli tinti di biondo. Il lui di Loren si chiama Mohàmmed, ventiduenne bisex muscoloso con occhi grigioazzurri. La loro tana è in un agglomerato di emarginazione pullulante di lavoratori stranieri, cinesi, africani, filippini, centro-americani, molti dei quali sono clandestini. Povertà e paura.
Shaul racconta anche di una tragedia. Quella di Adam, ebreo divorziato con due figli, e di Shon, più giovane, palestinese di Hevròn. Shon l’hanno beccato e la legge l’ha rimandato a casa. Di lui Adam non ha saputo mai più nulla.
Shaul parla, si infervora e suda per l’agitazione, la commozione e la rabbia. Shaul parla e il mingherlino con lo zuccotto se ne resta nell’angolo e tace, gli occhi bassi, le mascelle contratte.
Shaul porta a esempio Uzi Even, rinomato docente universitario di chimica che nel 1993 sfidò la Knesset, il Parlamento, con parole di libertà. Anni dopo, Uzi, che aveva passato la sessantina, alla Knesset ci è tornato da deputato del Mèretz, il partito della sinistra sionista progressista che sta a sinistra del Labour party. Però intanto lo hanno cacciato dall’intelligence dell’esercito, gli hanno revocato il grado di ufficiale riservista, gli hanno reso la vita impossibile all’ateneo. La guerra di Uzi alla fine lo ha premiato: in uno dei periodi in cui era Primo ministro, Yitzhàk Rabin aveva ordinato che la legge militare fosse corretta e i soldati gay non più discriminati.
L’omone dagli occhi celesti continua a parlare e il mingherlino se ne resta nell’angolo. Shaul ha l’orgoglio – gay o no poco cambia – di chi vuole sfidare, il piccoletto si aggiusta nervosamente il copricapo ricamato dei religiosi. Vorrei condividere questo momento con un caro amico ebreo italiano omosessuale, uno di quelli che faticano a vivere, che stanno male. Lui andava nei parchi in cerca di arabi, e solo di arabi. Li aveva conosciuti nei suoi anni francesi belli e forsennati, in quei sottoponti della Senna che brulicano l’intera notte di lavoratori mediorientali che vanno lì a sfogarsi negli orifizi dei parigini. Il mio amico voleva liberarsi di un padre retto e severo, giusto e castrante, buono e perfido, pio e ottuso, voleva liberarsi di se stesso. Chissà se nei luridi sobborghi di Tel Avìv l’eros proibito dalla Bibbia scorre con maggiore serenità; mi chiedo che cosa provino mentre si scopano due maschi che non possono fare a meno di guardare i propri cazzi circoncisi, segnati entrambi dal Patto con l’Onnipotente, solo che per uno il patto è stato siglato da Abramo e per l’altro è stato riconfermato da Maometto.
Diceva il buon vecchio Ben Guriòn che Israele sarebbe diventata finalmente una nazione normale qualora avesse avuto i suoi ladri e le sue puttane. Ai gay e alle lesbiche non ci pensava, non erano tempi.
Stefano Jesurum