Primo Levi, Miti d’oggi
Bruno Osimo – Francesco Brioschi Editore
Prefazione di Bruno Segre
Gli anglismi e gli americanismi che intitolano i capitoli di questo libro non sono da attribuire all’antico vizio italico dell’esterofilia. Alcontrario, proprio con il provocatorio richiamare il selvaggio trapianto nella nostra lingua di terminie costrutti anglofoni, Bruno Osimo ne sottolinea con ironia gli aspetti ridicoli, banali, talvolta volgari, e caso mai fa valere con forza il rifiuto di farsi subordinare, trasformare, denaturare, emarginare.
Per Osimo, fonte inesauribile di ispirazione di tale rifiuto, e di molto altro ancora, è Primo Levi: una guida preziosa alla quale egli si consegna, affascinato dal suo pensiero acuto e lungimirante, dalla sua scrittura cristallina, dalla sua complessa e tragica vicenda umana.
Nel 2012 Osimo aveva dato alle stampe il Dizionario affettivo della lingua ebraica, una prima valida prova narrativa le cui pagine, pur non componendo una vera e propria autobiografia, raccontavano il suo impegno a fare chiarezza nell’intrico delle ascendenze e dei comportamenti famigliari. In quell’opera Osimo, figlio di genitori scampati da giovani (lei a sedici anni, lui a ventitré) alla deportazione verso un Lager, narrava d’essersi trovato iscritto, per iniziativa della yiddishe mame, alla scuola ebraica anche se “papà non voleva che io ci venissi”, e quindi di sentirsi costretto sin da bambino a fare i conti con la sua qualità di “ebreo clandestino”.
Da questa condizione s’era potuto finalmente liberare molto più tardi, andando a visitare a Gerusalemme lo Yad Vashem, il museo-monumento dedicato alle vittime della Shoah. “Quando ho visitato lo Yad Vashem, avevo quasi cinquant’anni. Tanti fili della mia vita mi portavano in quella direzione, ma non lo sapevo, o non lo volevo riconoscere. […] adesso che sono qui dove c’è questa stazione, questo posto dove ci si ferma, dove si fa memoria, […] capisco che quello che mi è stato detto non è nulla a confronto di quello che mi è stato trasmesso senza dirmelo. […] È questo l’unico posto in cui mi sento a mio agio pensandomi ebreo non circonciso e mi sento ebreo completamente, […] È questo l’unico posto in cui paradossalmente mi sento protetto, non nel fisico ma nell’identità, qui sono legittimo, non sono più clandestino, né come ebreo né come cittadino del mondo.”
Dalla composizione di quel favoloso Dizionario è trascorso circa un decennio. E Osimo, entrato ormai in his sixties, ha fatto compiere alla sua inesausta ricerca di chiarezza identitaria un ulteriore tratto di strada, passando dalla lezione dello Yad Vashem − quel memoriale austero che parla della morte, dello sterminio, della cremazione − all’ascolto vigile di Primo Levi: un personaggio capace di vedere ogni cosa con oggettività e distanza, dotato delle qualità morali, culturali, scientifiche, di una resistenza fisica e di una capacità di adattamento tale da permettergli, nel cuore di un’esperienza estrema, di soddisfare una sua pur precaria volontà di sopravvivere; ma in particolare, un testimone in possesso di un’eccezionale capacità di osservare, studiare, giudicare, antivedere, ben palesata dal macrotesto che ha lasciato in eredità ai posteri. «Non sono in grado di giudicare il mio libro − scrive Levi − […] Mi auguro che venga letto comunque: non solo per ambizione, ma anche nella sottile speranza di essere riuscito a far sì che il lettore si accorga che le cose lo riguardano.» “Dire che l’opera di Primo è importante (solo) per la Shoah − commenta Osimo − è grossolanamente riduttivo: è immensa, ed è fondamentale per la nostra vita quotidiana attuale.” E poi, a mo’ di precisazione: “La sua grandezza sta nell’aver ricucito tutto quello che ha visto e vissuto, e ricollegato con la nostra vita quotidiana, ravvisando tracce di Lager nel suo quotidiano e tracce di quotidiano nel Lager. Che è poi quello che cerco di fare io in questo libro con il nostro quotidiano.”
Quanto in profondità Bruno si sia spinto nell’introiettare il pensiero e l’esperienza esistenziale di Primo, lo rivelano le pagine sofferte di questo libro. Perché il lettore incominci a farsene un’idea, do qui qualche esempio.
Sotto la parola chiave SUV (sigla che indica Sport Utility Vehicle), Osimo menziona un episodio di guerra che Primo, in La tregua, descrive così: «[I nazionalsocialisti che, fuggendo dal Lager, non volevano lasciare dietro di sé nulla che potesse favorire i prigionieri] non si erano attardati a recuperarli [gli alimentari in scatola], ma avevano cercato di distruggerli passandoci sopra con i cingoli dei loro mezzi corazzati.» Nel commentare questo passo, Osimo rileva che la violenza – moneta corrente, quale causa di morte e di traumi senza fine, nell’ottica della guerra − può assumere in tempo di pace forme diverse, per esempio negli incidenti stradali, ormai sempre più frequenti. Fa poi notare che per un’automobile normale scontrarsi con un SUV è più pericoloso che scontrarsi con un’automobile normale. Dunque: “Il principio che sta alla base della scelta di girare in SUV [anziché in un’automobile normale] è quello di cercare la propria protezione a scapito di quella altrui. […] Il pensiero, consapevole o inconscio − conclude Osimo −, dei portatori sani di SUV nei confronti del prossimo e dei prossimi, è lo stesso espresso da Primo nel passo citato: «distruggerli passandoci sopra con i cingoli dei loro mezzi corazzati.»
«Siamo stati capaci, noi reduci − si domanda Primo in I sommersi e i salvati − di comprendere e di far comprendere la nostra esperienza? Ciò che comunemente intendiamo per ‘comprendere’ coincide con ‘semplificare’: senza una profonda semplificazione, il mondo intorno a noi sarebbe un groviglio infinito e indefinito […] Siamo insomma costretti a ridurre il conoscibile a schema.» Chiosando queste riflessioni di Levi (in un capitolo intitolato Narrative), Osimo chiarisce che semplificare quando la materia è già, di suo, semplice, è più facile di quando non è semplice affatto. Per poi aggiungere, a parziale spiegazione del clima di indifferenza, apatia, assenza di interesse con cui Primo viene accolto al suo ritorno in famiglia a Torino, che “la vita in Lager è stata programmaticamente costruita in modo da non essere traducibile. I nazionalsocialisti sapevano che, se qualcuno fosse sopravvissuto, nessuno avrebbe creduto ai suoi eventuali racconti. […] I nazionalsocialisti hanno innovato radicalmente le modalità non solo di distruzione fisica, ma anche di detenzione e di condizionamento. Hanno costretto i prigionieri a vivere in modi propriamente indescrivibili, così da impedire loro di raccontare. Per farlo, Primo ha creato non solo un testo, ma un intero linguaggio.”
In un capitolo intitolato No Vax, dopo avere citato un passo da Se questo è un uomo che descrive un quadro epidemiologico rovinoso («Non avevamo che una minima scorta d’acqua, e non coperte né pagliericci di ricambio. E il poveretto, tifoso, era un terribile focolaio di infezione.»), Osimo ci ricorda che, pur non essendo medico, Levi era tuttavia capace di svolgere, nella cornice desolante del Lager, funzioni di rilievo nel prevenire la diffusione delle malattie. La sua cultura gli permetteva infatti “di attenersi ad alcuni princìpi di base, quelli che in teoria vengono insegnati in tutte le scuole nei corsi di igiene.” È vero che oggi le malattie infettive sono diminuite un po’ dovunque. Ma “l’unica epidemia che sta dilagando”, constata Osimo con amarezza, “e che sembra non conoscere antidoti è quella delle informazioni [pseudoscientifiche] in internet”. Chiunque può comunicare ciò che vuole, laddove larga parte del pubblico recettore non ha le basi educative necessarie per filtrare le notizie attendibili e distinguerle dalle panzane. “Apparentemente, internet […] ha dimostrato che la democrazia non funziona, e che nel principio che uno vale uno è racchiuso il pericolo enorme di diffusione di disinformazione.” Siamo ormai scesi, oggi, tanto in basso che sembriamo destinati a ripercorrere senza rimedio gli “errori passati, fino a giungere a nuove infezioni, nuove epidemie, nuove pesti causate da menti labili di persone ignoranti con un enorme potere comunicativo di massa.”
Quanto fossero affamati i Häftlinge ce lo dice Levi in Se questo è un uomo, rammentando che nel campo «si raschiano patate crude con altre bollite e disfatte; la miscela si arrostisce su di una lamiera rovente. Avevano sapore di fuliggine». Nella nostra storia nazionale, la Seconda guerra mondiale fu l’ultimo periodo in cui molti di coloro che la attraversarono ricordano non soltanto di avere sofferto la fame, ma anche di avere assistito a un immane spargimento di sangue umano. Finita la guerra, per alcuni anni − annota Osimo in un capitolo agrodolce intitolato Barbecue − fu avvertito diffusamente il bisogno di compensare il patimento subìto spargendo, per contrasto, sangue non umano, “un lusso prima insperabile”. “Per arrivare alla messa in scena del barbecue […] bisogna avere esorcizzato completamente la fame atavica, di modo da non avere di nuovo voglia di un setting più avventuroso per il proprio rituale di nutrimento. Il maschio inscena, come mezzo milione di anni prima, il ruolo del cacciatore procacciatore di selvaggina, e la femmina − che da copione dovrebbe occuparsi del fuoco − lascia il fuoco al maschio (che altrimenti non avrebbe nulla da fare, dato che non caccia) e si dedica ai servizi di comfort: […] tovaglie, tovaglioli, bicchieri, bevande, posate, recipienti per condimenti et similia. […] nessuno concepirebbe di abbeverarsi al fiume o di pulirsi la bocca con una foglia o di mangiare insipido o di rinunciare al caffè. Nemmeno le patate crude arrostite sulla lamiera rovente fanno di solito parte del nostro menu.”
«Quanto di noi stessi era stato eroso, spento?» si domanda Levi nel finale di La tregua. «Ritornavamo [a casa] più ricchi o più poveri, più forti o più vuoti?» A tali quesiti Osimo risponde in modo indiretto componendo un capitolo intitolato Anti-aging. In esso ci ricorda che tra i dogmi non scritti della nostra cultura figura l’esigenza di fare tante esperienze “perché le esperienze fanno crescere. Un altro [di questi dogmi] è che bisogna apparire giovani. L’ideale, insomma, sarebbe essere dei giovani vissuti. […] Nel 1945 Primo ha ventisei anni, quindi è giovane. Ed è vissuto” grazie al fatto che i trecentoquaranta giorni trascorsi a Monowitz e i duecentosessanta trascorsi nel viaggio di ritorno sono stati estremamente ricchi di esperienze. A quei due dogmi occorre però accostare oggigiorno anche l’equiparazione universalmente accettata tra vecchiaia e negatività, un’equiparazione che mobilita strategie “anti-aging” con effetti collaterali importanti. Grazie infatti ai farmaci che, vergognandocene, assumiamo di continuo, la nostra aspettativa di vita sta aumentando, ma ne deriva anche che “il mondo è sempre più pieno di vecchi, con pròtesi di vario tipo.” “Posso capire − così conclude Bruno − che Primo alla lunga si fosse stufato di vivere in mezzo a una popolazione guidata da queste preoccupazioni. […] In effetti Primo, senza alcun esibizionismo, senza alcuna polemica, senza fare nessun rumore, ha scelto l’unico ‘percorso anti-aging’ (come recita la pubblicità volgare) che funziona davvero.”
Una considerazione decisamente provocatoria ma che, nella sua originalità, trovo del tutto in linea con questo libro, nei termini in cui mi pare che Bruno Osimo l’abbia concepito.
Bruno Segre