Nevo: un abisso ci divide (anche dagli amici). L’ora più buia prima dell’alba
di Eshkol Nevo
Il racconto dello scrittore: la vicina che ha perso un figlio, la gioia per gli ostaggi liberati, le case svuotate dei vicini e quelle distrutte dei palestinesi. «Penso ancora che si debba trattare. Ma non con Hamas»
I miei amici italiani si felicitano con me per il ritorno degli ostaggi. Finalmente un barlume di speranza! mi scrivono. Non che io non sia d’accordo con loro. La scena di Ohad Munder di nove anni che si precipita di corsa tra le braccia del papà in ospedale dopo essere stato rilasciato, credo di averla vista già cinque volte. E la rivedrò molte altre nei prossimi giorni, perché abbiamo tutti un disperato bisogno di grazia.
Ma qualcosa dentro di me respinge le reazioni entusiastiche. Come anche le critiche unilaterali al mio Paese, basate su informazioni parziali, superficiali. Quasi esistesse un abisso, che per ora non sono ancora riuscito a colmare, tra me e gli amici che vivono fuori da Israele. Un’incomprensione profonda e molesta. In che modo la posso annullare?
La vicina
Potremmo iniziare con Dalia, di Malkia, un piccolo kibbutz al confine con il Libano. Dalia di fatto è la mia vicina, perché la casa dove vado a scrivere da qualche anno a questa parte e nella quale ho trovato rifugio durante la pandemia, è proprio accanto alla sua (l’ha costruita mio padre con l’idea di trasferirsi lì da pensionato, ma quando era pronta è arrivata mia madre e dopo una sola occhiata ha dichiarato: io vicino a Hezbollah non ci abito! Così la casa è diventata un rifugio per figli e nipoti in cerca di tranquillità lontano dal trambusto della città). Abbiamo incontrato Dalia fin dalle nostre prime visite a Malkia e siamo profondamente legati. È una delle persone più generose che io abbia mai conosciuto.
Adora avere ospiti, ti invita per una cena e una chiacchierata cuore a cuore. A partire dall’8 ottobre, però, Dalia non può più aprire la sua casa agli ospiti. Come tutti coloro che abitano vicino al confine settentrionale se n’è dovuta andare a causa degli attacchi di Hezbollah e abita in un albergo deprimente a Tiberiade. Io qui sto diventando matta, mi ha scritto ieri. E ha aggiunto: la cosa più intollerabile è che nessuno ha idea di quando potremo tornare a casa. In effetti, quando potranno tornare? penso. E non so cosa risponderle. Quale sistema potrà garantire loro che i terroristi di Hezbollah non attraversino il confine una notte qualunque, per rapirli come ha fatto Hamas al sud?
Andiamo avanti: Iris vive da ormai molti anni a Sderot. A una manciata di chilometri dal confine con Gaza. Ma anche lei e i suoi figli ora sono profughi. All’inizio li abbiamo ospitati a casa nostra. Adesso sono in un albergo. La mattina del 7 ottobre lei non era in città. La sua figlia maggiore invece sì. È rimasta nascosta nel rifugio dentro casa per dodici ore, convinta che sarebbe morta. Iris è una psicoterapeuta del movimento, ma adesso non ha chi aiutare, perché la maggioranza dei suoi pazienti arrivava dai kibbutz vicini a Gaza. Sono stati massacrati, oppure rapiti. E poi non sa se i suoi figli accetteranno mai di tornare a vivere a Sderot. D’altra parte, chi comprerebbe il suo appartamento in un momento simile? Andiamo a trovarla nell’albergo. Il contrasto tra il lusso della lobby e il caos che imperversa è stridente. Ci racconta che nell’albergo tutti sono al limite della sopportazione. Tra la gente scoppiano litigi, baruffe, e la situazione peggiora ogni giorno, non ce la fanno più a stare lì, ma non hanno altro posto dove andare.
La forza di ricominciare
Le proponiamo di trovare uno spazio in cui potrà riprendere almeno le sue sedute terapeutiche, così tornerà a guadagnarsi da vivere, e le promettiamo aiuto nel pubblicizzarle. Ci ringrazia ma dice, onestamente, che non è certa di avere la forza di tirarsi su e rimettersi al lavoro.
Sulla via del ritorno, dopo avere salutato Iris, penso: come potrà mai tornare a dormire tranquilla nella sua casa a Sderot, dopo quello che è successo il 7 ottobre? Mentre Hamas controlla ancora la Striscia di Gaza?
E non posso ignorare le immagini di Gaza. Persone che vagano tra le macerie delle loro case. Alcuni di loro hanno partecipato ai saccheggi e alle violenze avvenuti il 7 ottobre. Sono cose risapute, documentate. Dopo che i terroristi di Hamas hanno sfondato la recinzione, una folla scatenata li ha seguiti. Non tutti hanno partecipato a quelle atrocità, rammento a me stesso mentre guardo la Cnn. Non tutti. Queste persone, che adesso cercano tra le macerie qualche oggetto personale (la distruzione è enorme, inimmaginabile), sono a loro volta vittime di Hamas, che dopo il ritiro di Israele da Gaza ha scelto di impegnare le sue risorse in terrorismo e missili invece che in costruzione e benessere. Dove troveranno le forze per ricostruire le loro case distrutte, sapendo che a qualsiasi ora, in qualunque giorno, finché Hamas sarà al potere, potrà iniziare un nuovo ciclo di distruzione e sofferenza?
Il processo di pace
Io sono fra gli israeliani che per anni hanno sostenuto il processo di pace. Ho scritto articoli. Ho parlato alle manifestazioni. Ho creduto veramente, e credo ancora, che dobbiamo condurre trattative dirette con i palestinesi e giungere con loro a un accordo a lungo termine. E che siamo noi, la parte più forte, che le dobbiamo avviare. Che dobbiamo accettare compromessi, cedere. Ma non con Hamas. Per carattere sono più incline ai punti interrogativi che ai punti esclamativi. Però a volte le cose sono chiare. Non c’è spazio per dialogo e compromessi con chi ammazza bambini, stupra donne e rapisce anziani.
Ricordo a me stesso che dopo la sconfitta dei nazisti in Europa è iniziato un periodo di prosperità. Penso che dopo la sconfitta dell’Isis il Medio Oriente ha tirato un sospiro di sollievo. Chi, come me, crede che esista una possibilità di pace tra Israele e i palestinesi e gli Stati arabi, deve ripudiare Hamas e sperare che venga sconfitto in questa guerra e smetta di governare da Gaza.
Le strade vuote
Sono stati giorni di tregua, una tregua che mentre leggete questo articolo è già finita. Ma le strade erano rimaste comunque vuote. Quando cala il buio, ci si chiude in casa a guardare il telegiornale. Ieri sera all’improvviso hanno bussato alla porta. Chi poteva essere? In passato avremmo semplicemente aperto. Adesso ci avviciniamo sospettosi. Sbirciando dallo spioncino. Buio. Non si vede niente. Allora chiediamo: «Chi è?». «Marcelle», risponde la voce all’esterno. A mia moglie torna in mente, è vero, ha avvisato che sarebbe passata. Le apriamo la porta e la invitiamo a entrare. Abbraccia mia moglie a lungo. Il figlio di Marcelle è stato ucciso da Hamas durante il festival musicale a Re’im il 7 ottobre. È stato sepolto nel cimitero della nostra città e Marcelle ha deciso, dopo la settimana di lutto stretto, di trasferirsi in città per stare vicino alla sua tomba. Qui però non conosce nessuno e non ha la forza di tirarsi su e prepararsi da mangiare. Le donne del quartiere si sono organizzate per cucinare a turno, ogni giorno una diversa prepara anche per lei.
Marcelle prende la pentola da mia moglie. Un sorriso piccolo, mesto, le rianima il viso. La invitiamo a fermarsi con noi, ma lei ringrazia ed esce nel buio con la pentola. Serriamo la porta alle sue spalle. Ci sediamo per seguire le notizie. Mostrano a ripetizione Ohad Munder che corre tra le braccia del papà in ospedale, e io ripenso al verso di una canzone israeliana che amo: «Prima dell’alba è sempre il momento più buio».
(Traduzione di Raffaella Scardi)