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Tra gli ortodossi d’Israele che ora dettano legge. E il Mossad li vuole 007

Di Davide Lerner 21 luglio 2019

Cappotto nero, rigidi rituali, sussidi: presto saranno il 30% della popolazione. Sempre più decisivi in politica, invisi ai laici: così cambiano il volto del Paese.

BNEI BRAK (Israele). «Tel Aviv è a dieci minuti da qui ma non ci metto piede, per carità, là le donne vanno in giro mezze nude. Chi si espone a quel mondo lì poi torna in yeshivà e non capisce più niente degli studi religiosi» dice Elad Kuper, ultraortodosso israeliano di 27 anni, passeggiando nell’enclave haredi di Bnei Brak.

Kuper abita con la moglie e i suoi primi tre figli (la media per gli ultraortodossi è di circa sette) in una stanza e mezza affittata in uno stabile sgangherato e circondato di spazzatura, vicino alla sovraffollata arteria di “Rabbi Akiva”. Vive del sussidio della yeshivà, la scuola religiosa, che ammonta a 2.000 shekel al mese (490 euro), in buona parte prelevati direttamente dalle casse dello stato. Studia di notte – «solo col buio si raggiunge la massima concentrazione secondo l’importante rabbino Shimon Bar Yochai» – e durante il giorno aiuta un vecchio per raggranellare qualche altro shekel.

Ma nella comunità ultraortodossa sono piuttosto le mogli che, non “obbligate” a studiare le scritture ininterrottamente, sono autorizzate a fare qualche lavoro: in molte, come la ventiquattrenne Avigail, moglie di Kuper, fanno le maestre a scuola o negli asili part-time. Agli sforzi del governo per cerare di spingere più ultraortodossi a integrarsi nella società “mondana” si è di recente aggiunto niente meno che il Mossad, l’agenzia di intelligence israeliana.

«Abbiamo cominciato ad assumere personale ultraortodosso dopo lunghi percorsi propedeutici specializzati», ha detto il direttore del Mossad Yossi Cohen all’inizio del mese, citando una collaborazione con la Ong Pardes che si pone l’obiettivo di conciliare la vita religiosa degli haredim con quella lavorativa, finanche nel settore della difesa.

Kuper è un caso particolare nella comunità ultraortodossa: è un hoser leteshuva’ (colui che ritorna alla chiamata), cioè ha vissuto da laico fino a circa vent’anni, compreso il servizio militare, prima di scegliere il lungo cappotto nero e il cappello a larghe tese dei religiosi.

Ma per i suoi figli la strada è segnata. Kuper scandisce: «Dai 3 ai 13 anni talmud torah, poi yeshivà fino al matrimonio, che verrà organizzato da un “shachdan” o agente matrimoniale e approvato dai genitori, poi continueranno a studiare al kollel, la scuola religiosa per uomini sposati. Qui le vite sono semplici, è tutto pre-ordinato: non bisogna mai prendere decisioni», dice. «Ovviamente useranno cellulari kasher, che possono fare solo telefonate. E quando a 18 anni arriverà lo “zav rishon”, la chiamata dall’esercito, ci faremo dare un certificato d’esenzione dalla yeshivà», spiega.

Proprio sul risentimento verso i super-religiosi, visti come parassiti che eludono il servizio militare e vivono di sussidi statali da molti israeliani, si sono incagliati i negoziati per formare il quinto governo del primo ministro Benjamin Netanyahu. Ed è probabile che la stessa impasse si riproponga dopo le nuove elezioni del prossimo settembre: Avigdor Lieberman, che ha impugnato la causa dei laici, ha già detto che non farà sconti per andare in coalizione coi religiosi. E, secondo recenti sondaggi della televisione israeliana, senza Lieberman Netanyahu, ancora una volta, non sarà in grado di formare un governo.

Secondo l’Ocse, entro pochi decenni la componente haredi della società israeliana (attualmente circa un milione) potrebbe raggiungere il 30 per cento della popolazione, con gravi conseguenze su economia e politica del Paese. «È fondamentale che vengano rivisti i curriculum delle scuole haredi inserendo materie più classiche, dalla matematica alle scienze all’inglese, se si vuole favorire la loro integrazione nel mercato del lavoro», ha detto Peter Jarrett dell’Ocse al giornale economico israeliano The Marker. «È una battaglia contro il tempo», ha aggiunto.

C’è anche chi, come il noto scrittore israeliano Yuval Noah Harari, autore del bestseller “Sapiens,” interpreta la questione degli ultra-ortodossi in chiave positiva. In un mondo in cui l’automazione rendesse i mestieri dell’uomo sempre meno utili, teorizza nel suo ultimo libro “21 lezioni per il XXI secolo” (Bompiani editore), le persone godranno di un reddito di cittadinanza e dovranno realizzarsi facendo a meno del lavoro. Ecco allora che gli ultraortodossi, secondo diverse ricerche appagati da una vita fatta di soli rituali, sarebbero un’avanguardia da imitare invece che una zavorra di cui disfarsi, relegandola al passato remoto. Ma, per ora, la preoccupazione principale in Israele rimane quella di come favorire una loro integrazione alla luce del crescente peso demografico ed elettorale.

Al contrario della minoranza araba, anch’essa poco emancipata nella società israeliana, le autorità religiose haredi mandano i propri discepoli a votare come soldati. «Sappiamo che avere peso politico conta parecchio, anche se la nostra società vive separata», spiega Kuper.

Per misurare il peso politico degli ultraortodossi basta prendere in mano le prime pagine goliardicamente distopiche dei giornali “haredi” all’alba dell’ultima consultazione elettorale: “Matrimoni civili in arrivo,” “Trasporti pubblici di Shabbat (sabato) nella maggior parte delle città del Paese,” e ancora “Coscrizione obbligatoria per tutti”. Nessuno di questi scenari, con 16 deputati ultra-ortodossi alla Knesset, si possono realizzare.



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ISRAELE-PALESTINA: COSA RESTA DEL “PATTO DEL SECOLO” DI TRUMP?

A cura di: Eugenio Dacrema, Associate Research Fellow, ISPI MENA Centre  ISPI – Istituto per gli Studi di Politica Internazionale 24 giugno2019

Il 25 e 26 giugno si terrà a Manama, in Bahrein, una conferenza economica che vedrà la presenza di rappresentanti di numerosi stati arabi, degli Stati Uniti e di Israele. Nella mente dei suoi ideatori – in primis il genero di Donald Trump Jared Kushner e l’inviato statunitense per il Medio Oriente Jason Greenblatt – questo incontro avrebbe dovuto rappresentare l’occasione per presentare gli aspetti economici del cosiddetto “Patto del Secolo” (Deal of the Century), ovvero il piano dell’amministrazione Trump per mettere fine al conflitto israelo-palestinese. Alcuni imprevisti hanno però ridimensionato le aspettative degli organizzatori, i quali nelle ultime settimane hanno cercato di riformularne il significato per evitarne il completo fallimento. Quali sono quindi i nuovi obiettivi che gli organizzatori si prefiggono? Chi vi parteciperà? E quanto verrà svelato sul “Patto del Secolo”? 

La verità è che, se non fosse per la pompa magna che ne ha accompagnato l’annuncio all’inizio dell’anno, quello che ci apprestiamo a vedere in Bahrein sarebbe uno di quegli eventi che anche gli osservatori abituali della regione tendono a segnalare come una semplice nota a margine. Questo perché la Conferenza di Manama è stata progressivamente ridimensionata dai suoi stessi ideatori – tanto che la sua definizione ufficiale è stata recentemente “degradata” da “conferenza” a “workshop” – a causa di alcuni imprevisti occorsi nell’ultimo mese. Il più grave è l’annuncio di nuove elezioni in Israele il prossimo 17 settembre, dopo il fallito tentativo del Premier in carica Benjamin Netanyahu di formare una maggioranza di governo in seguito alle consultazioni dello scorso aprile. Ciò ha comportato un nuovo rinvio della presentazione ufficiale del “Patto del Secolo” – inizialmente prevista questo mese – al prossimo autunno, quando un nuovo governo israeliano si sarà sperabilmente insediato. Come spiega Giuseppe Dentice in questo commentary, la Conferenza/Workshop di Manama, che doveva enucleare gli aspetti economici dell’accordo in concomitanza con la presentazione del Patto tout court, si è trovata quindi improvvisamente “azzoppata” della sua parte “politica”. A complicare le cose sono poi intervenute le resistenze di molti paesi arabi a partecipare a un incontro internazionale in presenza di una delegazione israeliana di alto livello. Per permettere una quanto più ampia adesione di stati arabi, quindi, è stato necessario ridurre il livello della partecipazione israeliana, la quale nei piani iniziali di Washington avrebbe dovuto includere lo stesso Premier Netanyahu. La delegazione in arrivo da Tel Aviv sarà quindi composta da uomini d’affari vicini al governo ma privi di cariche pubbliche rilevanti. Tutto ciò non è comunque servito a evitare il boicottaggio della conferenza da parte dell’Autorità Palestinese che, contraria fin da subito al piano Trump, è riuscita a mostrarsi compatta e a resistere alle pressioni statunitensi. In sostanza, quindi, la Conferenza annunciata in pompa magna pochi mesi fa assomiglia oggi più a un incontro preparatorio minore, in attesa che il Patto effettivo venga annunciato in autunno. 

Al fine di garantire che non si tratti di un completo flop, gli organizzatori della Conferenza dovranno trovare il modo di darle un significato di qualche rilievo, sia nel framework del piano di pace israelo-palestinese sia rispetto agli ultimi avvenimenti che hanno riguardato la regione, in particolare la recente crisi tra Stati Uniti e Iran nel Golfo Persico.

Per quanto riguarda la questione israelo-palestinese, è da aspettarsi che a Manama vengano comunque rivelati alcuni aspetti fondamentali del piano Trump, che ha nella parte economica un pilastro fondamentale. Dalle voci trapelate finora, infatti, la logica fondamentale sottesa al “Patto del Secolo” è proprio quella dello scambio tra la rinuncia ad alcune fondamentali rivendicazioni palestinesi – Gerusalemme capitale, ritiro israeliano dal Golan, diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi all’estero, formazione di uno stato indipendente in Cisgiordania e a Gaza – in cambio di ingenti investimenti e aiuti economici a favore di uno stato palestinese solo semi-indipendente e limitato ad alcuni territori della Cisgiordania (forse sotto tutela congiunta israeliana a giordana) e verso i campi profughi palestinesi all’estero, i cui abitanti dovranno essere incorporati come cittadini negli stati che li ospitano. Secondo indiscrezioni, a Manama verranno promessi non meno di 50 miliardi di dollari in investimenti e aiuti, provenienti soprattutto dagli stati arabi del Golfo. In assenza di dettagli sui contenuti effettivi del piano Trump e di qualunque legittimazione del “Patto” da parte di qualunque rappresentante palestinese queste cifre rischiano però, con alta probabilità, di rimanere semplici numeri sulla carta con ben poche conseguenze concrete. La speranza di alcuni diplomatici americani, come Dennis Ross, è quindi che la discussione si concentri meno su piani di lungo termine e più sulle esigenze immediate dei palestinesi, le cui istituzioni e condizioni di vita sono allo stremo sia in Cisgiordania sia a Gaza.

L’incontro di Manama potrebbe però essere utilizzato da alcuni dei suoi più entusiasti partecipanti – ovvero Arabia Saudita ed Emirati, le due monarchie del Golfo più vicine a Israele e all’amministrazione Trump – anche per discutere della presenza iraniana nella regione. Non è un segreto infatti che il sostegno di queste nazioni al piano Trump – e la loro disponibilità a investirvi ingenti somme – sia soprattutto dovuta all’obiettivo di ricevere in cambio un attivo supporto statunitense contro Teheran

La Conferenza di Manama rischia quindi di essere un flop, quantomeno rispetto agli obiettivi originali per cui era stata ideata. Ma secondo voci sempre più insistenti, a rischio fallimento non vi è ormai solo il workshop economico in Bahrein, ma l’intero piano Trump, ovvero quel “Patto del Secolo” di cui si parla da oltre due anni. Dopo aver subito numerosi rinvii e impreviste resistenze anche da parte di stati arabi molto vicini a Washington, come la Giordania, il “Patto” ha ricevuto un nuovo colpo – forse questa volta mortale – dall’annuncio di nuove elezioni israeliane. Secondo l’ultima versione della scaletta di implementazione formulata dai suoi ideatori – primo fra tutti il genero del presidente americano Jared Kushner – la presentazione ufficiale del piano sarebbe dovuta arrivare questo mese, poco dopo la formazione del nuovo governo a Tel Aviv. Il fallimento di Netanyahu nella ricerca di una nuova maggioranza parlamentare ha fatto slittare l’annuncio almeno fino al prossimo autunno, periodo che però cade in concomitanza con l’inizio della campagna per le elezioni presidenziali del 2020 negli Stati Uniti. Secondo diverse voci circolanti negli ambienti diplomatici, la strategia emergente nella regione – soprattutto fra gli stati contrari come la Giordania e l’Egitto – sarebbe quella di smettere di contrastare il piano in modo diretto – dopo molti tentennamenti Giordania ed Egitto manderanno infatti una delegazione a Manama – e di aspettare che il “Patto del Secolo” muoia di “morte naturale” dopo l’estate. La stessa amministrazione americana sarebbe sempre più scettica sulle effettive possibilità di riuscita del piano e non sarebbe disposta a spenderci troppo capitale politico in piena campagna elettorale. Ad amplificare questa percezione da parte degli americani vi sarebbero anche gli atteggiamenti ambivalenti dimostrati da molti alleati arabi durante l’organizzazione della Conferenza di Manama. Mentre, infatti, durante incontri privati molti leader si sarebbero detti disposti a partecipare insieme a una delegazione israeliana di alto livello, gli stessi leader avrebbero poi rinnegato le proprie affermazioni nei loro annunci pubblici, sconvolgendo i piani americani. Ciò avrebbe dimostrato ai membri dell’amministrazione Trump l’evidente difficoltà, anche per i leader più vicini a Washington, di accettare pubblicamente un piano che azzera di fatto le principali storiche rivendicazioni del popolo palestinese. Scarso entusiasmo, inoltre, sarebbe stato dimostrato dallo stesso governo israeliano il quale, dopo aver incassato alcuni obiettivi cruciali come il riconoscimento statunitense di Gerusalemme capitale e della propria sovranità sul Golan, non sarebbe ora altrettanto entusiasta di accettare le seppur limitate concessioni previste dal “Patto del Secolo”. 

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Israel Is at Peace (With Itself)

The country can’t form a government, its peace process is permanently stalled—and things have never been better.

By Steven A. Cook | May 30, 2019, 5:30 PM

When Israeli Prime Minister Benjamin Netanyahu failed to form a government on Wednesday, you could hear a collective groan from all 8.7 million Israelis at the thought of having to endure another election campaign this fall. But the exasperation was quick to dissipate. Israelis—at least Jewish Israelis—are at peace with themselves and aware they are enjoying an unreservedly good moment. “It could be worse,” declared a former Israeli official as we sipped coffee on a spectacular May evening overlooking the Old City of Jerusalem’s Jaffa Gate.

The country is clearly on a roll. Israel ranks as the 13th-happiest country in the world, its economy is steady at 4 percent unemployment, no one is afraid to board a bus, the tourists keep coming, relations with its neighbors are mostly good and growing, and no one (outside of the government) much cares about the Boycott, Divestment, and Sanctions movement. On that May evening, one would have never known by the crowds on the beach south of Tel Aviv that Hamas and other extremist groups had recently poured rocket fire into Israel from Gaza or that the U.S. national security advisor was threatening war with Iran. The rockets had stopped, there was no war, and so things were good. They certainly “could be worse.”

Among the many benefits of personally visiting a given country is the chance to take all the chatter currently in circulation about it before separating the nonsense from the relevant parts. This is especially true in Israel’s case given the distortions and even outright lies that have become accepted facts about the country. The Israelis have a lot to answer for, including their slow-rolling, 52-year-long annexation of the West Bank; the terrible conditions they’ve allowed to fester in the Gaza Strip; and the so-called corporate Mossad that is doing everything from running hit squads for hire in Yemen to providing spyware to unsavory governments around the world. But Israelis do not harvest the organs of Palestinian prisoners, and they are not responsible for police brutality in the United States. On most of the crucial issues of the day, Israelis simply do not conform to much of the most widely prevalent reporting, analysis, and caricatures, both good and bad.

Now that the Israelis find themselves again waiting for a new government, the peace plan prepared by White House staffer Jared Kushner (if it even exists) will itself have to wait until at least September for its rollout. But the whole thing barely rates a mention among Israelis. They seem to be more interested in chatting about Israel’s domestic political dramas. Mostly they do not seem to care about foreign efforts to forge peace, because it has become an article of faith that the Palestinians cannot, will not, and do not want to negotiate in good faith. That there is “no partner” sounds like an excuse, especially because Palestinian security forces have worked hard to maintain security, but it speaks to the searing experience of the Second Intifada that ended almost 15 years ago.

The Israelis have managed to use technology, territory, power politics, and the success of Israel’s economy to minimize the pain to themselves of occupation. The one thing that the Palestinians can do that would make a difference is something they emphatically will not do: shut down the Palestinian Authority and make the Israelis pay an actual price for their occupation and annexation. Under these circumstances, the Israeli attitude seems to be, “Let Jared Kushner try to sell his plan—we have better things to do.”

If Israelis are feeling any sort of worry right now it’s over Iran—or rather, U.S. President Donald Trump’s Iran policy. Israel has always been a sort of regional Sparta—heavily militarized with steely national security focus—but it has also been more cautious than anyone gives it credit for. After years of sounding the alarms, raising red flags, and otherwise trying to get the attention of just about everyone concerning Iran—efforts that were almost always interpreted as warmongering—the Israelis are pleased that Trump understands the challenge the Iranians pose and like the squeeze Washington is putting on Tehran. That is a long way away from wanting war, however. The Israelis I met were worried about the price they and their kids would pay in the event of a conflict between the United States and Iran. No one believed National Security Advisor John Bolton’s saber-rattling was wise, and they certainly did not want it to be at their behest. Their lives were good, after all. Deterring the Iranians, like what the IDF has been doing in Syria, seems to be their preferred policy, particularly because the Iranian response has been weak.
If not for Netanyahu’s legal troubles, he likely would have won April’s election in a landslide. Netanyahu tends to frame all discussion of politics among Israelis. That makes sense given how long he has been prime minister, but it also speaks to how dominant he and the right have become. The coalition of former generals (plus one TV anchor) known as Blue and White is not an opposition in terms of its conservative approach to policy, but rather personality. Taken together, Netanyahu has already won half the battle.
Between now and September a lot of smart analysts will game out the Israeli elections and inform their readers and listeners of all the different ways in which Netanyahu is vulnerable. But upon the dissolution of the Knesset, an Israeli interlocutor—someone who dislikes the prime minister—sent me a message saying he cannot be hopeful for a different outcome. That is because Netanyahu, for all his faults both real and perceived, has kept Israel prosperous and safe. And that is what Israelis seem to care about most and why heading into a long, hot summer of crazy politics and electioneering, the prime minister continues to have the electoral edge. If Netanyahu is interested in a new campaign slogan, he’d be smart to consider: It could be worse.

Steven A. Cook is the Eni Enrico Mattei senior fellow for Middle East and Africa studies at the Council on Foreign Relations. His latest book is False Dawn: Protest, Democracy, and Violence in the New Middle East.

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Israele e Gay Pride, una lunga storia

di Stefano Jesurum dal libro “Israele nonostante tutto”, Longanesi, 2004

…. Io so cosa fare adesso, me ne torno a Tel Avìv, lì ci saranno pure “quelli che fanno le feste”, ma a Gerusalemme la cupezza attanaglia, avvolge e diviene angoscia. Troppe certezze, troppe fedi e tutte assolute, troppo assoluto, troppo di tutto. Da ragazzi ci si può permettere di sentirsi profeti, si può essere convinti di avere la verità in tasca. Quanto ero orgoglioso di partecipare al picchetto d’onore che all’università Statale di Milano accoglieva il compagno Abù Qualcosa. “Sì – mi convincevo – sono un ebreo giusto”. Poi mi hanno fatto capire che ero un ebreo e basta.

1972, Monaco, Germania, i fedayn compiono un massacro. Il 5 settembre, alle quattro e dieci del mattino, un commando di otto uomini riesce a entrare negli alloggi della squadra olimpica israeliana. I terroristi di Settembre Nero uccidono subito l’allenatore di lotta libera Moshe Weinberg e il campione nazionale di sollevamento pesi Yosèf Romano. Nell’appartamento al numero 31 di Connollystrasse ci sono altre dodici persone. Tre riescono a scappare, nove vengono prese in ostaggio: i lottatori Mark Slavin e Elièzer Halfin, i pesisti Davìd Berger e Zeev Friedman, gli allenatori Kehat Shorr, Andre Spitzer e Amitzur Shapiro, i giudici Jokov Springer e Joseph Gotfreund. In cambio della loro liberazione, il governo israeliano dovrebbe scarcerare immediatamente duecentotrentaquattro prigionieri, il governo tedesco i principali esponenti della Rote Armee Fraktion. Da Tel Avìv il premier Golda Meir fa sapere che non tratta. Il risultato è un orripilante bagno di sangue: muoiono i nove ostaggi più un poliziotto e un pilota d’elicottero, dei fedayn cinque sono uccisi e tre catturati.

Le Olimpiadi non si fermano, the show must go on. Che vergogna. Corro in via Festa del Perdono, dove c’è la mia università, la mia famiglia, il mio Movimento studentesco. Con l’eloquio tipico di quegli anni dico che questo è un tragico errore, che così si infanga la giusta causa del popolo palestinese. I miei capi rispondono: “Su questi temi, voi compagni ebrei è meglio che stiate zitti”. Quella sera, a casa, piango.

Il passare degli anni peggiora le cose. Mi aspetta dell’altro. Ad esempio vedere nelle recenti manifestazioni per la pace qualche maledetto imbecille vestito da kamikaze di Hamàs. O sapere che a Parigi i compagni di mia figlia, i ragazzi dell’Hashomèr Hatzaìr, scendono in piazza a urlare insieme a tanti che la guerra in Iràq è sbagliata, che va fermata: ma dal momento che indossano la casacca azzurra del movimento sionista-socialista, che proprio in quei giorni compie novanta anni, allora li picchiano selvaggiamente. Sarà per questo che adesso io, da non osservante quale sono, il 25 aprile e il Primo maggio sfilo dietro alle rosse bandiere internazionaliste con la mia brava kippà (non ricamata) in testa?

Sono i ricordi a tenermi sveglio mentre scendo a Tel Avìv. Cerco un baretto a Nèveh Tsèdek, quartiere chic-alternativo che non ha nulla da invidiare a certe zone di Parigi o Londra o New York. Ho urgenza di aria, di persone che sappiano sorridere, godersi la vita, ho bisogno di un buon cocktail. Il cuore di Nèveh Tsèdek è via Shabàzi, con le sue erboristerie e i locali dove praticano massaggi di ogni genere purché siano orientaleggianti, le palestre per arti marziali, eleganti boutique, scuole di danza del ventre, negozi che vendono vecchi manifesti, centri yoga, bigiotteria non convenzionale, ricercatezze.

Alcuni padri rasta passeggiano con il figlioletto infilato nel marsupio appoggiato sulla pancia, giovani donne pedalano su biciclette dai portapacchi carichi di sacchetti, una vecchia coppia di raffinati omosessuali esce a mani vuote dalla libreria dove forse ha cercato un romanzo che non è più in commercio. Ci sono molti cani, grandi, piccoli, di razza, meticci. Anni fa, in Israele, ce n’erano pochissimi, di cani. Chiedevo perché e mi rispondevano: “Non abbiamo tempo, c’è altro di cui occuparsi”.

Dietro a via Shabàzi scorre un labirinto di stradine su cui si affacciano caffè con giardini da mille e una notte. Sbirciando attraverso i portoni delle case più affascinanti appaiono all’improvviso cortili fioriti. In uno, sotto a un albero, una soldatessa in divisa verde, con il mitra appoggiato sul fianco, sta baciando appassionatamente un ragazzo con la coda di cavallo bionda, e lui con una mano le accarezza il seno, con l’altra la tiene appiccicata a sé.

Desiderio, sesso, amore, tenerezza. Il contrario delle caserme, delle camerate. Ricordo ciò che mi ha bisbigliato la moglie di un amico: “Per noi donne la Tzavà è più pesante, per le cose che vedi intorno, per i turni massacranti, per la nostra stessa natura. Però se ti dai al tuo ufficiale – e ce ne sono di assai carini – diventa più facile, è ignobile e umiliante, ma più facile”.

Al cameriere che porta un martini vodka domando informazioni sull’associazione Agudà per la “protezione dei diritti individuali”. La si raggiunge in meno di un quarto d’ora. L’indirizzo che avevo appuntato sul taccuino era sbagliato, per fortuna dalle finestre della sede sventola un enorme e riconoscibilissimo drappo arcobaleno. Ad aprire è Shaul, la cui massiccia corporatura da paracadutista è in netto contrasto con l’acquosità malinconica degli occhi celesti. C’è un altro giovane uomo presente che invece è scuro, riccio e mingherlino, porta la kippà ricamata dei religiosi, e la cosa – debbo ammetterlo – mi colpisce. Mi stupisco del mio stupore, per un istante vince l’imbarazzo. Di loro non so nulla, soltanto che rappresentano l’orgoglio gay. Essere gay, da queste parti, ha un significato – se possibile – ancora più estremo che in altre regioni del mondo. Vuol dire, per esempio, che esistono più di cinquecento individui fra i venti e i trent’anni, omosessuali, bisessuali e transessuali, che si nascondono nei sobborghi di Tel Avìv, che non possono lavorare perché non hanno un permesso di soggiorno, che vivono nel terrore di essere arrestati dalla polizia e di essere rispediti a casa. Ovvero a Ramallah, Gaza, Nablus. Sono palestinesi che convivono con un compagno ebreo. Si nascondono dalle famiglie che, se li trovassero, purificherebbero col sangue il disonore di un figlio o un fratello luti, contronatura secondo il mondo musulmano, frocio, finocchio, checca.

Shaul mi dice di Loren, all’anagrafe israeliana maschio, nella quotidianità donna truccatissima dai lunghi capelli tinti di biondo. Il lui di Loren si chiama Mohàmmed, ventiduenne bisex muscoloso con occhi grigioazzurri. La loro tana è in un agglomerato di emarginazione pullulante di lavoratori stranieri, cinesi, africani, filippini, centro-americani, molti dei quali sono clandestini. Povertà e paura.

Shaul racconta anche di una tragedia. Quella di Adam, ebreo divorziato con due figli, e di Shon, più giovane, palestinese di Hevròn. Shon l’hanno beccato e la legge l’ha rimandato a casa. Di lui Adam non ha saputo mai più nulla.

Shaul parla, si infervora e suda per l’agitazione, la commozione e la rabbia. Shaul parla e il mingherlino con lo zuccotto se ne resta nell’angolo e tace, gli occhi bassi, le mascelle contratte.

Shaul porta a esempio Uzi Even, rinomato docente universitario di chimica che nel 1993 sfidò la Knesset, il Parlamento, con parole di libertà. Anni dopo, Uzi, che aveva passato la sessantina, alla Knesset ci è tornato da deputato del Mèretz, il partito della sinistra sionista progressista che sta a sinistra del Labour party. Però intanto lo hanno cacciato dall’intelligence dell’esercito, gli hanno revocato il grado di ufficiale riservista, gli hanno reso la vita impossibile all’ateneo. La guerra di Uzi alla fine lo ha premiato: in uno dei periodi in cui era Primo ministro, Yitzhàk Rabin aveva ordinato che la legge militare fosse corretta e i soldati gay non più discriminati.

L’omone dagli occhi celesti continua a parlare e il mingherlino se ne resta nell’angolo. Shaul ha l’orgoglio – gay o no poco cambia – di chi vuole sfidare, il piccoletto si aggiusta nervosamente il copricapo ricamato dei religiosi. Vorrei condividere questo momento con un caro amico ebreo italiano omosessuale, uno di quelli che faticano a vivere, che stanno male. Lui andava nei parchi in cerca di arabi, e solo di arabi. Li aveva conosciuti nei suoi anni francesi belli e forsennati, in quei sottoponti della Senna che brulicano l’intera notte di lavoratori mediorientali che vanno lì a sfogarsi negli orifizi dei parigini. Il mio amico voleva liberarsi di un padre retto e severo, giusto e castrante, buono e perfido, pio e ottuso, voleva liberarsi di se stesso. Chissà se nei luridi sobborghi di Tel Avìv l’eros proibito dalla Bibbia scorre con maggiore serenità; mi chiedo che cosa provino mentre si scopano due maschi che non possono fare a meno di guardare i propri cazzi circoncisi, segnati entrambi dal Patto con l’Onnipotente, solo che per uno il patto è stato siglato da Abramo e per l’altro è stato riconfermato da Maometto.

Diceva il buon vecchio Ben Guriòn che Israele sarebbe diventata finalmente una nazione normale qualora avesse avuto i suoi ladri e le sue puttane. Ai gay e alle lesbiche non ci pensava, non erano tempi.

Stefano Jesurum

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Le parole di Primo Levi: Dio e gli ebrei

di MARCO BELPOLITI Repubblica 5 giugno 2019

Il 31 luglio di quest’anno Primo Levi avrebbe compiuto 100 anni, abbiamo pensato di raccontarvelo in 13 parole, tredici lemmi, uno per settimana, che riassumono la sua opera così importante, vasta e poliedrica. Sono voci di una piccola enciclopedia portatile per conoscere aspetti della sua opera e della sua vita, dalla presenza degli animali nei suoi libri al rapporto con la fede religiosa e l’ebraismo, dalla poesia alla chimica e alla fantascienza. Un ritratto a tutto tondo di un autore decisivo per la nostra letteratura, ma anche per la nostra coscienza civile.

Nel novembre del 1983, quattro anni prima della sua morte, un giornalista del settimanale “Gente”, Giuseppe Grieco, va trovare Levi a Torino. Sta pubblicando una serie d’interviste dedicate al rapporto con Dio. Il secondo interlocutore è proprio lo scrittore torinese, ex chimico in pensione. L’esordio è diretto: “Io credo di essere un caso estremo – dice – , nel senso che quello di Dio è un problema del quale finora non mi sono mai veramente occupato. La mia è la vita di un uomo che è vissuto, e vive, senza Dio, nell’indifferenza di Dio”.

Lo dice con molta tranquillità e tutta l’intervista è una dichiarazione di ciò che possiamo definire il suo agnosticismo. L’anno precedente Levi ha incontrato Elie Wiesel, anche lui deportato ad Auschwitz, che ha fatto dell’Olocausto il centro della sua vita – Wiesel ha anche dato legittimità a questo termine che significa “tutto bruciato”. Levi dice che Wiesel è divenuto in un certo senso un “ossesso” di Dio, mentre lui è rimasto nella sua non-fede. Com’è possibile?, gli chiede Grieco. Non ha forse invidia per chi aveva la fede nel Lager? Certo gli risponde Levi: “Io invidio i credenti. Tutti i credenti”.

L’intervista è molto chiara e racconta il rapporto di Levi, non solo con la religione, ebraismo compreso, ma anche con il tema del Male, che ossessiona i credenti: se c’è stato Auschwitz, dove era Dio? Perché l’ha permesso? Wiesel, spiega lo scrittore torinese, si è trovato a vivere brutalmente da credente il grande trauma di Auschwitz, quello del “trionfo del male”, ed è arrivato “ad accusare Dio di permetterlo, di non intervenire a fermare i carnefici”. Io, continua, “mi sono limitato a concludere: Dunque è proprio vero: Dio non c’è”.

Il suo punto di vista, spiega, è lo stesso di Giacomo Leopardi, “il poeta che accusa la natura di ingannare i suoi figli con false promesse di bene che sa di non poter mantenere”. Levi era un materialista, nel senso filosofico del termine, per via della sua formazione culturale, per l’adesione alla scienza in senso positivo, seppure non sia mai stato un Positivista in senso filosofico: conosceva bene i limiti e i rischi stessi della scienza, cosa su cui si è soffermato con vari scritti dopo l’esplosione di Chernobyl. 

Allora, che ebreo è stato? Un ebreo non credente, si potrebbe rispondere. Ha spiegato che il credente nella sua famiglia, per quanto superstizioso e riluttante, era il padre, che ne seguiva i precetti anche alimentari, eppure amava molto il prosciutto. L’educazione che ha avuto è dunque quella di un ebreo. A tredici anni ha fatto il Bar Mitzvah, ovvero la cerimonia d’ingresso nella comunità ebraica, a Torino, una cerimonia che necessitava un esame di lingua ebraico e di storia e cultura ebraica.

Ma dopo qualche mese, si è ritrovato allo stesso punto: non era credente, come i suoi amici cristiani che avevano fatto la comunione e la cresima. L’ebraismo per lui è qualcosa di diverso da una religione. Dice: “è una questione di identità: una identità della quale, devo però dire anche questo, non intendo spogliarmi”. Sono frasi che ha ripetuto molte volte. Intanto s’era scoperto ebreo dopo le leggi razziali del 1938, e poi aveva conosciuto l’ebraismo ortodosso nel Lager, e anche prima, nel campo di Fossoli, come testimonia il primo capitolo di Se questo è un uomo, dove assiste alla cerimonia di addio alla vita della famiglia di ebrei italiani provenienti da Tripoli, i Gattegno, tutti falegnami.

Lì parla di se stesso e dei presenti usando il noi, noi ebrei: “Noi sostammo numerosi davanti alla loro porta, e ci discese nell’anima, nuovo per noi, il dolore antico del popolo che non ha terra, il dolore senza speranza dell’esodo ogni secolo rinnovato”. Si tratta di uno dei punti più espressivi della sua dichiarazione d’identità. Che non significa dichiarazione di fede.

Una delle cose che Levi ha più volte ripetuto è di essere italiano, per tre quarti, e per un quarto ebreo, ma che quel quarto era molto importante per lui. Sopravissuto al Lager, è tornato a Torino, dalla sua famiglia e dai suoi amici, non è migrato in Israele, come documenta il finale de La tregua. Non è stato neppure sionista, anche se da giovane qualche simpatia per i sionisti l’aveva provata, dice.

E anche nei confronti di Israele, lui da laico, socialista e antifascista militante, ha sempre mantenuto un rapporto complesso, mai di adesione completa e totale, differenziando il diritto di esistenza di quel paese dalle scelte politiche e militari dei suoi governanti. Cosa che gli ha provocato non poche polemiche e anche conflitti nel mondo ebraico. Così era Levi: un uomo particolare, molto poco conformista, anche a livello di scelte ideali e di valori. Pur essendo un illuminista, sul piano intellettuale – gli ebrei hanno partecipato alla rivoluzione illuminista – non ha mai sostenuto posizioni estreme.

Critico nei confronti dei palestinesi di Al Fatah, il suo ebraismo è stato un ebraismo politico di sinistra, se così si può dire. C’è un punto della sua prima opera, di cui parla, seppur indirettamente nell’intervista del 1983, che definisce molto bene il suo atteggiamento verso la religione in generale e l’ebraismo nello specifico. Si trova nel capitolo Ottobre 1944, dedicato alla selezione degli uomini non validi, o presunti tali, nel Lager di Monowitz, dove lavora.

Nel silenzio della baracca Primo sente il vecchio Kuhn che prega. Lo fa ad alta voce e tenendo il berretto dei deportati in testa. Dondola il busto con violenza alla maniera dei vecchi ebrei. Kuhn, un ebreo ortodosso, sta ringraziando Dio perché non è stato scelto. La reazione del giovane chimico torinese finito in Lager perché ebreo è secca: Kuhn è senza dubbio un insensato. 

Nella cuccetta accanto Beppo, un greco di vent’anni, è stato invece scelto per essere inviato alle camere a gas, cosa che accadrà puntualmente l’indomani mattina. Se ne sta sdraiato e fissa la lampadina senza dire nulla e senza pensare nulla. Levi si chiede: non lo sa il salvato che la prossima volta toccherà a lui?

Non capisce Kuhn che è accaduto un abominio e “che nessuna preghiera propiziatoria, nessun perdono, nessuna espiazione dei colpevoli, nulla insomma che sia in potere dell’uomo di fare, potrà rinascere mai più?”. La conclusione di Levi è dura e forte: “Se fossi Dio, sputerei a terra la preghiera di Kuhn”. Ecco, in questa frase si compendia l’atteggiamento del non-credente Levi nell’inferno di Auschwitz.

Molte delle dichiarazioni di Primo Levi su questo tema dell’ebraismo e non solo si trovano nel volume Opere complete III, pubblicato da Einaudi lo scorso anno. Il suo sottotitolo è: Conversazioni, interviste e dichiarazioni; sono oltre 1000 pagine raccolte.

Marco Belpoliti

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